La stagione del racconto

Più che installazioni, le opere di Joan Jonas esposte nella buia navata dell’HangarBicocca sono macchine relazionali complesse e articolate che si rincorrono dandosi la voce a vicenda.

Joan Jonas, “Light Time Tales”, 2014. Installation views Fondazione HangarBicocca, Milan Photo Agostino Osio. Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milan
Su una spiaggia remota, un gabbiano volteggia senza sforzo sopra una distesa di conchiglie, coralli e nivei coriandoli.
Il cielo è immerso in una soluzione salmastra di meriggio liquido e, con un esercizio d’immaginazione, si può tendere l’orecchio e udire i segnali di saluto delle navi in partenza trasportati dal vento. Questo brioso sprazzo di paesaggio marino galleggia, al centro della mostra di Joan Jonas, come un frammento di sogno, raggelato per sempre all’interno di una boule à neige di vetro grande quanto una palla da baseball. Una leziosa scena di un’estate a rovescio, da portare sul palmo della mano, che di questa mostra restituisce, in prismatica miniatura, il clima lieve e trasognato, a tratti surreale.
Joan Jonas, “Light Time Tales”, 2014. Installation views Fondazione HangarBicocca, Milan Photo Agostino Osio. Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milan
Joan Jonas, “Light Time Tales”, 2014. Vista della mostra alla Fondazione HangarBicocca, Milano. Photo Agostino Osio. Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milano
Rosee conchiglie rastrellate dalle maree della luna e neve pesante, troppo greve per fluttuare: è, del resto, con queste immagini dall’accostamento inverosimile che, nel 1968, Jonas intesse, con straordinario intuito poetico, la trama di Wind, l’opera più datata presente in mostra, uno dei suoi primi e molto lodati film. Lo gira assieme a Peter Campus su una desolata spiaggia di Long Island battuta dalle nevi di dicembre, il cielo quasi un altro mare, i performer, come pettirossi nella bufera, alle prese con un vento furioso, tambureggiante, che canta e ulula, che torce i nervi. In lontananza, immersi in una nebbia di miopia e salsedine, Joan Jonas e Keith Hollingworth appaiono e scompaiono come antilopi albine, infagottati in pesanti cappotti di lana luccicanti di specchi, su cui tremolano riflesse le immagini spezzate di un paesaggio costruito per frammenti, come la memoria.
Joan Jonas, “Light Time Tales”, 2014. Installation views Fondazione HangarBicocca, Milan Photo Agostino Osio. Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milan
Joan Jonas, “Light Time Tales”, 2014. Vista della mostra alla Fondazione HangarBicocca, Milano. Photo Agostino Osio. Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milano
Wind è un’opera che tocca diverse corde del pensiero estetico dell’artista newyorkese, classe 1936, e prossima rappresentante degli Stati Uniti alla Biennale di Venezia (l’interesse verso la natura e le sue forze; l’attitudine alla coreografia e a intessere relazioni tra soggetti e discipline differenti; il motivo del vento, del paesaggio sospeso e distorto, e dello specchio come arredo scenico che frantuma e moltiplica lo spazio – un’idea mutuata da Borges e trasposta nel 1969 nella celebre serie dei Mirror Pieces) e non sorprende come il suo ricordo sommerso riaffiori, a più di quarant’anni di distanza, nell’ultimo video realizzato da Jonas proprio per questa occasione: Beautiful Dog (2014), ovvero “l’estate di un cane in Canada”.
Joan Jonas, “Light Time Tales”, 2014. Installation views Fondazione HangarBicocca, Milan Photo Agostino Osio. Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milan
Joan Jonas, “Light Time Tales”, 2014. Vista della mostra alla Fondazione HangarBicocca, Milano. Photo Agostino Osio. Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milano
Un’opera che rappresenta per l’artista una nuova saison pour la plage, dove la spiaggia è quella di Cape Breton (già location della performance del 1971 Nova Scotia Beach Dance, con gli spettatori appollaiati su una scogliera per sperimentare la dissonanza temporale creata dalla distanza fra un suono generato da un’azione e la sua ricezione acustica) e dove il cielo e il mare, in groppa allo scatenato cane Ozu, si riversano l’uno nell’altro.
Joan Jonas, “Light Time Tales”, 2014. Installation views Fondazione HangarBicocca, Milan Photo Agostino Osio. Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milan
Joan Jonas, “Light Time Tales”, 2014. Vista della mostra alla Fondazione HangarBicocca, Milano. Photo Agostino Osio. Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milano

Così come si riversano l’una nell’altra, agendo di concerto, le tante opere esposte in questa mostra magistralmente allestita da Andrea Lissoni nella buia navata dell’HangarBicocca – una ventina in tutto, realizzate dalla fine degli anni Sessanta a oggi. Più che installazioni, macchine relazionali complesse e articolate – decentrate, ridondanti e fuori controllo – che come molti capitoli di un aquilone dalla lunga coda si rincorrono dandosi la voce a vicenda, per poi raccogliersi in un bouquet degno di una regina.

Joan Jonas trotta da un’opera all’altra, nelle sue diverse età, come una cavallerizza da circo, per poi volatizzarsi all’improvviso, come Alice attraverso lo specchio.

Joan Jonas, “Light Time Tales”, 2014. Installation views Fondazione HangarBicocca, Milan Photo Agostino Osio. Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milan
Joan Jonas, “Light Time Tales”, 2014. Vista della mostra alla Fondazione HangarBicocca, Milano. Photo Agostino Osio. Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milano
Eccola abbisciarsi e arrampicarsi sopra un muro con un grande specchio ancorato al soffitto (sorta di quarta parete teatrale), che oscilla leggero, avanti e indietro, e dà le vertigini, nella performance Choreomania, realizzata nel 1971 con Richard Serra, il cui meccanismo narrativo è affidato ai soli movimenti del corpo. Eccola, in mezzo a una fontana di eruzioni vulcaniche, correre sul posto, sussurrare a mezza voce parole incomprensibili nella bocca di un cono di stagno e augurare il buongiorno e la buonanotte attraverso i tanti monitor che compongono Mirage (1976/1994/2005): un’opera inizialmente concepita per la sala di proiezione degli Anthology Film Archives di New York in cui scultura, video e performance si uniscono in un lungo, prolungato orgasmo. 
Joan Jonas, “Light Time Tales”, 2014. Installation views Fondazione HangarBicocca, Milan Photo Agostino Osio. Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milan
Joan Jonas, “Light Time Tales”, 2014. Vista della mostra alla Fondazione HangarBicocca, Milano. Photo Agostino Osio. Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milano
Eccola, ancora, in orbita nel sistema video a circuito chiuso di I Want to Live in the Country (and Other Romances) (1976), intenta a leggere alcuni stralci del suo diario o ad arrangiare un set à la De Chirico con un cavallo di bronzo, un mappamondo e una maschera messicana. Ed eccola, molti anni dopo e in compagnia del cane Zina, improvvisarsi pittrice in My New Theater III: in the Shadow a Shadow (1999), sorta di teatro portatile in miniatura, o svolgere una serie di azioni rituali sulle note di un malinconico valzer nel video Waltz (2003): un’opera ispirata alle cupe incisioni Los desastres de la guerra di Goya ma percorsa da toni decisamente umoristici – una bandiera sventola, una sedia levita, i volti trasformati in buffe maschere di cartapesta.
Joan Jonas, “Light Time Tales”, 2014. Installation views Fondazione HangarBicocca, Milan Photo Agostino Osio. Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milan
Joan Jonas, “Light Time Tales”, 2014. Vista della mostra alla Fondazione HangarBicocca, Milano. Photo Agostino Osio. Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milano
Joan Jonas possiede quella rara abilità nel trattare contemporaneamente dieci idee diverse come un giocoliere fa con le palline. Prolifica come un’antica ma straordinariamente rigogliosa glicine, per quasi cinque lustri non ha mai smesso di tessere sogni e miraggi nella trama concreta del reale, inseguendo una visione, uno stato d’animo, un ritornello, o lasciandosi sedurre, soprattutto dalla metà degli anni Ottanta, dai meccanismi narrativi del racconto – epico, mitologico o fiabesco (del 1976 è la sua prima performance basata su un testo, Il ginepro, dei fratelli Grimm). Stratificata come una torta millefoglie di piani temporali e livelli narrativi compressi, la stagione del racconto di Joan Jonas, corrispondente al terzo atto di questa inesauribile mostra senza fondo (intitolata appunto “Light Time Tales”), è qui testimoniata da dieci installazioni multimediali sparse lungo tutto il percorso espositivo.
Opere ispirate a poemi epici (come Volcano Saga, 1985/1994, un mondo di ghiacciai e fiordi incontaminati, vulcani e veggenti, anelli che sanguinano ed elmi dorati), a testi letterari (come Reanimation, 2010/2012/2013, in cui pesci preistorici, arieti fatati, demoni e fantasmi concorrono alla costruzione di un universo soprannaturale) o a saggi critici (come The Shape, the Scent, the Feel of Things, 2004/2007, tutta raccolta nel “discorso di addio”, divenuto poi noto come Il rituale del serpente, tenuto da Aby Warburg nella casa di cura dove era ricoverato per un esaurimento nervoso).
Joan Jonas, “Light Time Tales”, 2014. Installation views Fondazione HangarBicocca, Milan Photo Agostino Osio. Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milan
Joan Jonas, “Light Time Tales”, 2014. Vista della mostra alla Fondazione HangarBicocca, Milano. Photo Agostino Osio. Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milano

A fare da baricentro mobile di questa passeggiata troppo lunga per visitatori occasionali è Lines in the Sand (2002), un’installazione tentacolare e caleidoscopica, che rappresenta una deriva, un punto di non ritorno (dall’espressione inglese “to draw a line in the sand”). “Tutti noi conosciamo la storia di Elena di Troia”, recita la voce narrante, “ma solo alcuni l’hanno seguita in Egitto. Come vi è giunta?” L’opera rimestola con dovizia di dettagli una leggenda risalente alla notte dei tempi (con protagonisti un re, una regina e un toro di nome Bianche-corna) con i saggi della poetessa imagista Hilda Doolittle, Tribute to Freud (1956) ed Elena in Egitto (1961), in cui si afferma che Elena non giunse mai a Troia e che greci e troiani combatterono, in realtà, per un surrogato, un fantasma, un’illusione.

 

 

Il risultato è un decotto molto coinvolgente di miti, visioni, presenze, che oscura il cosiddetto mondo reale, tangibile, e lascia illuminato solo quello inconscio, pseudoimmaginario. Un’allucinazione a tinte forti, dove una chaise longue verde lime (rivisitazione del lettino dell’analista) invita a un viaggio nel dimenticato, nell’inosservato, nel paranormale. “Elena era una stella, una nave o un tempio?” “La guerra era inevitabile? Chi ha vinto? Chi ha perso?” Sfingi e spirali. Vesti viola, blu, nere, a quadri e a righe. Greggi di pecore e di montoni. Il melograno rovinato dall’inverno, il melograno in fiore. Il suono del gesso sulla lavagna. “Ho visto il mondo attraverso la mia doppia lente, sembrava che tutto si fosse rotto, tutto tranne quella”. La piramide di Cheope. La piramide di vetro del Luxor Hotel. Tutto gira, s’arresta, riprende a girare. Un battito di ciglia, e la sfinge è a gambe all’aria. E sul drappo di sabbia dorata di Lines in the Sand sembrano posarsi luccicanti fiocchi di neve.

© riproduzione riservata

fino al 1 febbraio 2015
Joan Jonas. Light Time Tales
HangarBicocca, Milano

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