Arte di confine

A Samo, negli spazi di un ex albergo e a pochi km dal confine turco, il centro d’arte Pythagorion, offre l’occasione di analizzare i rapporti tra ospite e ospitante, tra accogliere e ricevere accoglienza.

Le implicazioni simboliche della trasformazione di un vecchio albergo sul mare in centro d’arte contemporanea vanno dritte al cuore delle riflessioni contemporanee sulla funzione sociale della prassi culturale, dei suoi obiettivi, dei suoi metodi e delle sue prospettive.
Se infatti sono molti i punti in comune tra un albergo e uno spazio d’arte (entrambi sono spazi di circolazione e non di permanenza, che si fondano su attività effimere; entrambi sono associati a forme di tempo libero, di ricreazione e di trasferta d’affari, ed entrambi sono il luogo d’interazioni specificamente codificate tra ospiti e ospitanti) appare comunque un segno importante che un’infrastruttura turistica dismessa diventi sede di un’importante luogo pubblico di cultura, potenzialmente in grado di esercitare un influsso estremamente positivo sul territorio in cui s’inserisce.
Pythagorion
In apertura: Beeline. Photo Stathis Mamalakis. Qui sopra: City Language III. Photo Stathis Mamalakis
Riflessioni che divengono ancor più ricche di senso se si considera che il centro d’arte del Pythagorion, aperto nel 2012 dalla Schwarz Foundation di Monaco di Baviera, si trova a Samo, l’isola greca di 33.000 abitanti nella parte più orientale del Mar Egeo, a un solo miglio dalla costa occidentale turca – quindi in un territorio che impone una molteplicità di filoni di dialogo a qualunque iniziativa culturale destinata a estendersi agli immediati dintorni. Di particolare importanza sono le considerazioni relative all’incidenza del turismo sulla realtà economica, sociale e urbana dell’isola; l’inevitabile rapporto con la Turchia, Paese confinante con il quale pare impossibile sciogliere l’intrico di elementi comuni e differenze del patrimonio culturale; ma anche il rapporto con la Germania, paese d’origine della fondazione; e infine, ma non meno importante, il fatto che Samo sia percepita come possibile porta d’ingresso in Europa per chi tenta di sfuggire a una drammatica situazione del proprio paese, asiatico o africano.
Line of carpet. Photo Stathis Mamalakis
In questo quadro un centro d’arte che occupa gli spazi di un ex albergo è l’occasione di analizzare in profondità i rapporti tra ospite e ospitante, tra accogliere e ricevere accoglienza, tra insediamento e ospitalità. È interessante notare che in parte le antiche funzioni dell’albergo sono state mantenute per accogliere una serie di locali destinati a ospitare artisti e altri professionisti del settore, che hanno il raro privilegio (e l’esperienza assolutamente da film) di dormire dentro un museo d’arte. Anche la configurazione complessiva dell’edificio è stata conservata: una bassa struttura longitudinale che si stende di fronte al molo del Pythagorion, a metà strada tra il porto e la piccola ma affollatissima spiaggia di Remataki, visibile dalle grandi finestre dello spazio espositivo principale. Il progetto, elaborato dagli architetti locali Penny Petrakou e Stelios Loulourga, si distingue per la semplicità e per la riformulazione delle funzioni preesistenti, vera e propria scelta di adattamento che non apporta alterazioni importanti alla forma architettonica originale. All’interno si struttura intorno a due percorsi principali accessibili dall’atrio, che definiscono l’organizzazione biforcuta dello spazio espositivo.
Session. Photo Stathis Mamalakis
Questa configurazione ha trovato impiego particolarmente positivo nella mostra personale “Borderline” di Nevin Aladağ (20 luglio – 10 ottobre 2014), dove la curatrice del Centro d’arte del Pythagorion, Marina Fokidis, ha usato le sezioni dell’edificio per suddividere le opere dell’artista in due filoni: uno con pezzi che mettono in questione le divisioni geopolitiche in rapporto all’ambiente acquatico (tra cui i video Borderline, 2014, e Border Sampling, 2011), l’altro con una serie di videoinstallazioni multicanale (e precisamente Session, 2013; Raise the Roof, 2007; e Familie Tezcan, 2001) che trattano analoghe riflessioni sui temi dell’identità e dei confini in relazione a vari territori.
Line of carpet. Photo Stathis Mamalakis
Il pezzo centrale della mostra – Borderline, commissionato dalla Schwarz Foundation, che dà il titolo alla mostra – consiste in un video in cui una nave incrocia in acque indefinite. Proiettate a grande scala le inquadrature della traversata si alternano regolarmente con quelle dello schermo di un apparato GPS che mostra l’esatta posizione della nave. Si comprende che l’artista sta seguendo la linea cartografica che divide la Grecia dalla Turchia, divisione simbolica i cui criteri e la cui posizione appaiono insensati, poiché le sfumature di blu oltremare delle acque che si attraversano sono ovviamente identiche da entrambi i lati del confine.
Borderline GPS
Un analogo tentativo di mettere in evidenza l’arbitrarietà dei vincoli dei confini geografici viene presentata in Beeline (“Linea retta”, 2014), opera che punteggia l’ambiente della sala centrale dello spazio espositivo con una serie di grandi rocchetti di legno, intorno ai quali si avvolge uno spesso cavo nero la cui lunghezza complessiva corrisponde alla distanza tra la posizione della fondazione e la costa della Turchia. Distribuiti intorno alla sala dalle grandi finestre i rocchetti acquisiscono una certa presenza decorativa, come di design. Ma la loro funzione d’uso come sedili per i visitatori dà vivacità continua alla sala, le cui finestre danno sulla piccola spiaggia urbana e sul lato orientale del Pythagorion, e la loro presenza garantisce un curioso incrocio tra le riflessioni suscitate dall’opera dell’artista e la loro collocazione concreta.
Voice Over. Photo Stathis Mamalakis
Fuori, sulla facciata dell’ingresso, la sera, quando è particolarmente visibile e udibile, prende vita una grande proiezione di City Language III (2009). Il suono del battito delle mani nel video si mescola al rumore dei passanti – per lo più famiglie locali e turisti – inserendosi perfettamente nella vivacità di uno spazio pubblico mediterraneo. Con l’illuminazione serale lo spazio è contemporaneamente integrato e distinto dal contesto, volta le spalle al territorio mentre le finestre sono chiaramente rivolte verso la Turchia. Ma, più che un semplice edificio dalla collocazione simbolica, si tratta qui di un’istituzione la cui attività cerca di mettere in opera una quantità di ponti dotati della grande potenzialità di oltrepassare le frontiere, le carte e le differenze.
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