La forza dell'opera sta nella sua ambiguità, nella sua natura fluttuante e intermedia tra il racconto e un intervento di arte pubblica, con "la leggerezza di un monumento che tende a sparire con la pioggia e a finire tutto in mare", spiega Stefania Galegati.
Per questo, la lettura è volutamente aperta: i passanti la scoprono, la seguono chi in una direzione, chi nell'altra, la fanno propria perdendosi nell'intrico dei vicoli, seguendo un andamento non lineare, che tuttavia una direzione ce l'ha: quella verso il mare. Si potrebbe definire, parafrasando Henri Lefebvre, una pratica spaziale per riscrivere rotte quotidiane, nuovi possibili territori di rappresentazione. Al centro sta la storia realmente accaduta e raccolta dalla Matteucci durante gli incontri con le figlie e le nipoti di Ruth e Carlo, che trapela dal "dialogo fra un dybbuk (figura della cultura yiddish della vecchia Europa dell'Est, quella dei racconti tradizionali del Golem e compagnia bella) e una donna quidam un po' stupida, ovvero semplice, una che cerca l'amore delle favole", racconta Rosa Matteucci.
Un lavoro denso e stratificato, che fa della leggerezza e della grazia delle parole scritte a pennello su strada un monumento effimero alla storia d'amore di Ruth e Carlo
