Le visioni a mezz'aria di Saraceno e Sachs

Dalla missione su Marte, negli spazi dell'Armory di Park Avenue, a una composizione futuristica di 16 poliedri sul tetto del Metropolitan: chiedendoci di osservare altri mondi, i due artisti ci inducono a guardare noi stessi più da vicino.

Quando scende la cappa dell'estate, pensiamo alla fuga: nell'oscurità ad aria condizionata di un cinema, in piscina, al lago, negli spazi aperti, all'esterno. In cima al Metropolitan Museum of Art, brilla una di queste visioni liberatorie: una composizione decisamente futuristica di 16 poliedri a 12 e 14 facce collegati tra loro, alta otto metri e mezzo e fatta d'acciaio, specchi e plexiglas. Cloud City è il più recente (e il più grande) esemplare della serie Cloud City/Air Port Cities dell'argentino Tomás Saraceno, che sperimenta la potenziale promessa di comunità galleggianti o volanti. Benché le installazioni sperimentali di Saraceno siano state ampiamente esposte in Europa e negli Stati Uniti, l'installazione del Metropolitan (che ha richiesto due anni di lavoro) è il primo importante incarico dell'artista negli Stati Uniti.

Nelle ultime quindici estati, il giardino in cima al museo è stato lo scenario di sculture di Ellsworth Kelly, di Jeff Koons e nel 2010, forse la cosa più interessante, dell'installazione interattiva di Doug e Mike Starns Big Bambù. Quando ha visto i lavori di Saraceno, alla Biennale di Venezia del 2009, Anna Strauss, curatrice associata, si è convinta che "con la sua inventiva scatenata Tomás sarebbe stato l'artista ideale per creare qualcosa per questo sito".

In apertura: vista dell'installazione di Nick Doyle e Pat McCarthy al
Mission Control Center (MCC). Landing Excursion
Module (LEM) sullo sfondo. Photo Genevieve
Hanson, NYC. Qui sopra: Mary Eannarino mentre prova i preparativi di una missione in<i>Space Program: Mars</i>. Photo Genevieve Hanson, NYC
In apertura: vista dell'installazione di Nick Doyle e Pat McCarthy al Mission Control Center (MCC). Landing Excursion Module (LEM) sullo sfondo. Photo Genevieve Hanson, NYC. Qui sopra: Mary Eannarino mentre prova i preparativi di una missione inSpace Program: Mars. Photo Genevieve Hanson, NYC
Alla tavola rotonda del 31 maggio Artist as Innovator: Visions of a Floating City ("L'artista come innovatore: visioni della città galleggiante") l'insaziabile curiosità di Saraceno è apparsa immediatamente evidente: lo scorrere dei secondi e il succedersi delle immagini sembravano incapaci di tenere il passo travolgente delle sue idee. A proprio agio in un programma di interventi che comprendeva un astrofisico, un astrobiologo, un aracnologo e un architetto di primo piano, l'arte di Saraceno spazia liberamente dalla chimica alla biologia, dalla fisica all'ingegneria. La sua ispirazione è altrettanto multiforme: batteri, reti neurali, bolle, ragnatele, il cosmo. Siamo di fronte a un uomo che ha arruolato un considerevole gruppo di scienziati, fotografi e programmatori per analizzare e costruire il primo modello tridimensionale a scala umana della ragnatela di una vedova nera. La forma che ne risulta, che secondo i fisici presenta analogie con l'origine dell'universo, sta tipicamente a metà strada tra scienza e arte, tra micro e macrocosmo, tra realtà e fantasia. Strauss, descrivendo l'itinerario dell'ideazione della mostra, cita le due proposte iniziali di Saraceno: un contenitore gonfiabile di quasi 300 metri quadrati di materiale a specchio e un enorme pallone ancorato al tetto, proposte entrambe silurate da "problemi di fattibilità e da questioni di bilancio". La "scatenata inventiva" che ha procurato a Saraceno l'incarico per il tetto era tutto sommato di troppo per il museo. Manca qui la poetica fragilità di gran parte dell'opera dell'artista e, per quanto Cloud City non sia precisamente un pallone ancorato, non si può fare a meno di notarne le pastoie.
Tomás Saraceno, installazione <i>Cloud City</i>, sul tetto del Metropolitan Museum. Photo Tomás Saraceno
Tomás Saraceno, installazione Cloud City, sul tetto del Metropolitan Museum. Photo Tomás Saraceno
Nei giorni di canicola, le stilettate del sole riflesse dalle superfici a specchio della struttura trapassano anche gli occhiali da sole più scuri, rendendo le esplorazioni meridiane di ciò che il New York Times bolla come "formalismo da baraccone" molto meno gratificanti del pensiero del pergolato adiacente e del suo invitante banchetto delle bibite. L'utopica visione dei futuri – quello possibile e quello immaginato – di Cloud City, rifratta e riflessa in mille modi, appare su questo tetto ridimensionata in misura deludente; subordinata alla bellezza del panorama e all'ossessione dell'osservatore per il proprio riflesso sulla sua superficie. A dispetto delle carenze, tuttavia, nella creazione di Saraceno c'è un'innegabile bellezza: il senso della speranza in ciò che non si conosce, l'emozione della ricerca e l'anticipazione della scoperta. "È una storia che finirà là dove è cominciata: a metà", scrive Janna Levin, fisica teorica e saggista, in A Madman Dreams of Turing Machines: "Un triangolo oppure un cerchio. Una curva chiusa con tre punti. Un diario di viaggio alla ricerca di tesori sepolti nei boschi, nelle vie, nei libri, nei treni deserti. Alla ricerca appassionata di un amuleto, di un gioiello, di una ragione, di uno scopo, di una verità. Quasi lo vedo nella periferia, proprio dove si diceva che fosse, che mi attrae con il suo brillio ai confini più lontani di ogni angolo della mia ricerca".
Saraceno non è l'unico artista ad aver dedicato gli ultimi due anni della sua vita a elaborare un piano di fuga nutrito di argomenti scientifici. A poca distanza dal Metropolitan, Tom Sachs ha trasformato l'oscura caverna della piazza d'armi dell'Armory di Park Avenue in una missione cosmica verso il Pianeta rosso, fatta di compensato e nastro adesivo.
Tomás Saraceno, installazione <i>Cloud City</i>, sul tetto del Metropolitan Museum. Photo Tomás Saraceno
Tomás Saraceno, installazione Cloud City, sul tetto del Metropolitan Museum. Photo Tomás Saraceno
Saraceno non è l'unico artista ad aver dedicato gli ultimi due anni della sua vita a elaborare un piano di fuga nutrito di argomenti scientifici. A poca distanza dal Metropolitan Museum il MacGyver dell'arte contemporanea ha trasformato l'oscura caverna della piazza d'armi dell'Armory di Park Avenue in una missione cosmica verso il Pianeta rosso, fatta di compensato e nastro adesivo. Tom Sachs, celebre per la sua prospettiva da bricoleur nella ricostruzione di oggetti tecnologicamente complessi, con il suo Space Program: Mars non ha pretese: "La nostra è da pezzenti", dice della spedizione NASA dell'Armory, "ma proprio per questo è fantastica". Sachs, come Saraceno, ha una formazione da architetto e affronta la pratica artistica con rigore scientifico: "La mia religione è il lavoro", ha dichiarato in una presentazione pubblica il 1° giugno con Anne Pasternak e Kristy Edmunds, che hanno realizzato la mostra con lui. E certamente usare la pura estetica della scienza fai-da-te come presupposto e come addizione è prova di una quasi spirituale dedizione alla professionalità. Sachs, che ha trascorso mesi di ricerca presso la NASA, ha arruolato una squadra di 13 "artinauti" giovani e bisognosi perché collaborassero alla riuscita della missione. Le 50 sculture, i 5 cortometraggi e gli innumerevoli opuscoli che ne sono usciti cercano di coprire tutto l'arsenale del sostentamento vitale necessario alla colonizzazione e all'esplorazione scientifica di Marte. La schiettezza tecnologicamente maniacale dell'unità di controllo della missione, dell'ambiente di quarantena mobile, del modulo per le escursioni sul terreno, delle tute spaziali autorefrigerate e della palestra degli astronauti è intrisa dello spirito satirico del Punto di Addestramento alle Bibite, della Casa da Tè Giapponese e dell'Hot Nuts Delivery System (HNDS), il Sistema di erogazione di noccioline.
Vista dell'installazione di Tom Sachs <i>Space Program: Mars</i>,
Park Avenue Armory. Photo James Ewing
Vista dell'installazione di Tom Sachs Space Program: Mars, Park Avenue Armory. Photo James Ewing
Benché di tono totalmente differente, lo Space Program di Sachs rivela un proprio attualissimo stile di formalismo da baraccone. Il gruppo di Sachs – che per tre anni ha adottato le severe regole alimentari, ginniche e metodologiche illustrate nei cinque video di addestramento – ha attentamente svolto la missione per l'intera durata di un mese. Vestiti di tute aderenti, camici da laboratorio e di camice bianche che inalberavano sul dorso la bandiera degli Stati Uniti e la scritta "Non andrà male per colpa mia", circolano a bordo di skateboard e comunicano con il walkie talkie. "Abbiamo voluto andare su Marte non perché fosse facile, ma perché era difficile; perché lo scopo organizzi e misuri il meglio delle nostre capacità", dichiara solennemente Sachs in uno dei video d'addestramento, parafrasando le affermazioni del presidente Kennedy a proposito della spedizione lunare della NASA del 1969. Bene ha osservato il Financial Times che Space Program possiede "l'umorismo e l'autoironia di Stephen Colbert".
Vista dell'installazione di <i>The Dig</i>. Il pubblico di civili prende posto sulle sedie dietro. Photo Genevieve Hanson, NYC
Vista dell'installazione di The Dig. Il pubblico di civili prende posto sulle sedie dietro. Photo Genevieve Hanson, NYC
Ma la missione su Marte del 2012 è molto più di un gioco da baraccone. Sotto lo spettacolo e la satira si comprende che Sachs offre all'osservatore uno specchio frammentato. Per la sua stessa natura Space Program: Mars induce a chiedersi fino a che punto il programma spaziale Apollo non fosse a sua volta una colossale performance artistica. E, a parte questo, l'influsso di maggiore portata di Cloud City e di Space Program: Mars è che fanno di noi ciò che Buckminster Fuller battezzò "passeggeri dell'astronave Terra". Chiedendoci di osservare altri mondi in definitiva sia Sachs sia Saraceno ci inducono a guardare più da vicino noi stessi. "La scienza è questione di confronti", conclude Sachs: "Guardiamo a Marte per analizzare noi stessi".
Tomás Saraceno, installazione <i>Cloud City</i>, sul tetto del Metropolitan Museum. Photo Tomás Saraceno
Tomás Saraceno, installazione Cloud City, sul tetto del Metropolitan Museum. Photo Tomás Saraceno
Vista dell'installazione di Tom Sachs, <i>Space Program: Mars</i>, dettaglio della stazione di riparazione. Photo Genevieve Hanson, NYC
Vista dell'installazione di Tom Sachs, Space Program: Mars, dettaglio della stazione di riparazione. Photo Genevieve Hanson, NYC
Vista dell'installazione di Tom Sachs <i>Space Program: Mars</i>, con il Landing Excursion Module (LEM), Mars
Excursion Roving Vehicle (MERV) e Tom Sachs sulla War
Bike. Photo Genevieve Hanson, NYC
Vista dell'installazione di Tom Sachs Space Program: Mars, con il Landing Excursion Module (LEM), Mars Excursion Roving Vehicle (MERV) e Tom Sachs sulla War Bike. Photo Genevieve Hanson, NYC
Tomás Saraceno, installazione <i>Cloud City</i>, sul tetto del Metropolitan Museum. Photo Tomás Saraceno
Tomás Saraceno, installazione Cloud City, sul tetto del Metropolitan Museum. Photo Tomás Saraceno

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