Attraverso lo specchio: Lifelike

Intrisa di emozione e quieta fragilità, la nuova mostra del Walker Art Center analizza un percorso artistico che sta tra il Pop e l'Iperrealismo e ci mette in guardia su come configuriamo il mondo che ci sta intorno.

"Tu che leggi, sta' pronto". Le parole del poeta William Stafford appaiono una guida appropriata per una visita a Lifelike, l'ultima mostra aperta questo fine settimana al Walker Art Center di Minneapolis: "A partire da qui, che cosa vuoi ricordare? Come il sole si allunga su un pavimento lucido?" Il pavimento potrebbe essere quello a piastrelle di linoleum di In Memory of My Father di Sylvia Mangold, che ci sorprende con la sua umile bellezza, oppure l'eterea verginità di Utopia 1 di Paul Winstanley, che il critico d'arte Peter Schjeldahl proclama "il Vermeer degli interni aziendali". Lifelike analizza un percorso artistico che sta tra il Pop e l'Iperrealismo, nati negli anni Sessanta, ma tuttora riferimento formale dell'opera di molti artisti dell'avanguardia di oggi. In contrapposizione allo scintillio del Pop e ai metallici contorni dell'Iperrealismo, gli artisti di Lifelike sperimentano un aspetto più tranquillo e più personale del quotidiano. Il risultato è una mostra intrisa di emozione e di quieta fragilità. Se, come càpita a me, di solito la natura distaccata dei due movimenti citati vi lascia piuttosto freddi, potreste trovare Lifelike sorprendentemente gradevole.

È proprio l'umanità presente nelle opere in mostra (che dal punto di vista delle tecniche va dal disegno alla pittura e alla fotografia, alla scultura, al video e all'ambiente tridimensionale) che le intride di un sottile magnetismo. Aspetto ancor meglio illuminato dalla magistrale curatela di Siri Engberg, che ha inserito 90 opere di 50 artisti in spazi ben ideati che concretamente inquadrano concettualmente le opere in cinque sezioni: "Oggetti comuni", "Il mistero", "Dal realismo all'astrazione", "Destrezze di mano" ed "Effetti speciali: la realtà come spettacolo". Partendo da "Oggetti comuni", il fondamento storico degli anni Sessanta e Settanta si delinea negli emuli di Vija Celmins, Robert Bechtle, Duane Hanson e Chuck Close. Ma questi artisti, benché interessati al processo produttivo e alle qualità planari del mondo che li circonda, si distinguono per la celebrazione di qualità più semplici: i momenti di transizione, indegni di nota, l'oggetto quotidiano che, grazie all'attenzione, viene reso improvvisamente affascinante e bello.
In apertura: Maurizio Cattelan, <i>Untitled Elevator</i>, 2001. Qui sopra: Judd Nelson, <i>Hefty-2 Ply</i>, 1979-81
In apertura: Maurizio Cattelan, Untitled Elevator, 2001. Qui sopra: Judd Nelson, Hefty-2 Ply, 1979-81
Assenza evidente in gran parte della mostra è la fiducia nel contributo della tecnologia. Indubbiamente, controcorrente com'è rispetto all'incremento della velocità e della facilità della produzione materiale contemporanea, Lifelike rivela come molti artisti stiano intenzionalmente rallentando e complicando il proprio metodo di lavoro. Attraverso la deliberata e accurata riproduzione di oggetti generici questi soggetti diventano oggetti di curiosità, di follia e perfino feticci. Il particolare del tessuto della sedia di Catherine Murphy in Moiré Chair, il marmo di Carrara del sacco della spazzatura Hefty 2-Ply di Jud Nelson e i frammenti di muratura di Susan Collis, ricostruiti con materiali preziosi e con abilissima fatica in Forever Young, acuiscono lo sguardo e concentrano la mente sulla vita così spesso trascurata. Chi ha sensi in sintonia trova la sua ricompensa: Rain/Regen di Thomas Demand non è quel che sembra – alla vista come all'udito, Landscapes with Houses (Duchess County, NY) #8 di James Casabere è al primo sguardo fastidiosamente reale, mentre Cuatro Vientos, fotografia aerea di Esteban Pastorino, appare sconcertantemente artificiale.
Ron Mueck, <i>Crouching Boy in Mirror</i>, 1999-2000
Ron Mueck, Crouching Boy in Mirror, 1999-2000
Lifelike parla del caso e dei modi in cui esso ci mette in guardia su come – consciamente o meno – progettiamo e configuriamo il mondo che ci sta intorno. Apprezzare molte di queste opere richiede un'attenzione di portata differente da quella di cui ci ha dotati il 2012. Il video Still Life di Sam Taylor-Wood, con i frutti che evolvono dalla maturità alla putrefazione, rende chiara la centralità del tempo e l'importanza di tener nota di ciò che si perde tra i frenetici momenti della vita del XXI secolo. E tuttavia è proprio questa coscienza della velocità e della natura transitoria delle cose che rafforza la vita e la rende tanto più preziosa nella sua banalità. Lifelike, correttamente, pone domande più che riuscire a dare risposte. Queste opere, a prima vista tanto familiari, ci chiedono di guardare le cose con occhi nuovi: di esaminare la vita dentro e fuori, e di considerare l'ordinario e lo straordinario come intercambiabili. Vanno considerate come altrettanti occhiali per guardare la vita. "Che cosa ti può dare chiunque di più grande dell'adesso", riflette William Stanford, "a partire da qui, proprio in questa stanza, quando giri su te stesso?"
Queste opere, a prima vista tanto familiari, ci chiedono di guardare le cose con occhi nuovi: di esaminare la vita dentro e fuori, e di considerare l'ordinario e lo straordinario come intercambiabili
Sylvia Plimack Mangold, <i>Floors with Light at Noon</i>, 1972
Sylvia Plimack Mangold, Floors with Light at Noon, 1972
Yoshihiro Suda, <i>Weeds</i>, 2008
Yoshihiro Suda, Weeds, 2008

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