François Dallegret

Alla AA School of Architecture la mostra monografica dedicata al designer visionario franco-montrealese, curata da Thomas Weaver e Vanessa Norwood. Inderbir S. Riar e Roberto Zancan l'hanno intervistato.

Inderbir S. Riar e Roberto Zancan: Vorremmo parlare dei tuoi primi disegni di automobili, quelli di quando studiavi all'École des Beaux-Arts, una scuola nota per privilegiare il disegno sopra ogni altra forma di rappresentazione architettonica. Invece che con il disegno tradizionale lavoravi già in termini di disegno tecnico, o di una specie di fantasia meccanica.
François Dallegret: In principio ero molto timido, come studente, ma poi ne sono uscito: mi ero rasato la testa e mi hanno beccato che camminavo nudo per il boulevard Saint Michel. Nella mia vita di studente ho attraversato un periodo di bullismo: ero sempre in punizione, insomma, il che in certo qual modo mi ha tirato fuori dal guscio e ho imparato a ridere. Quando studiavo, passavo la metà del tempo lavorando in studi di architettura, dove usavo una Graphos, una penna tedesca che adoperava esclusivamente inchiostro di china puro. Tutti gli studenti usavano la Graphos, all'epoca era la penna del secolo. Era molto meglio del Rapidograph perché l'inchiostro non era diluito. Si potevano tirare linee molto sottili. Contemporaneamente, andavo matto per le auto e avevo una Bugatti, una Type 75 Gonglove. Ma ero uno studente e non potevo permettermi di andarci in giro. Così cominciai a disegnare fantasie automobilistiche, con auto straordinariamente lunghe, con ruote e motori esagerati. Non avevo nessuna conoscenza di meccanica, ma i miei disegni assomigliavano molto a quello che all'epoca veniva pubblicato sulle riviste d'automobili, pubblicazioni in cui vivevo praticamente immerso. Le riviste d'architettura non le guardavo nemmeno. Ma andavo già in cerca di un genere automobilistico di fantasia (la Bugatti) e quindi nei miei disegni non cercavo di dissezionare le auto normali. Cominciai a pubblicare qualcosa sulle riviste d'auto. A fare questi disegni ci mettevo tre mesi. Facevo un disegno per volta, non c'entravano assolutamente niente con il programma dell'École des Beaux-Arts.

Qui sopra: Artist in Cosmic Opera Suite pubblicato sulla rivista <i>Art in America</i>, marzo-aprile 1966. Foto di apertura: François Dallegret fotografato da Inderbir S. Riar mentre addenta il Bob Watts Black Sandwich del 1964
Qui sopra: Artist in Cosmic Opera Suite pubblicato sulla rivista Art in America, marzo-aprile 1966. Foto di apertura: François Dallegret fotografato da Inderbir S. Riar mentre addenta il Bob Watts Black Sandwich del 1964
Non hai terminato il corso, e invece dopo tre anni te ne sei andato a studiare a New York.
Ho lasciato Parigi e tutta quella gente terribile… Ero tenuto a prestare servizio militare, ma invece dei due anni regolamentari feci solo quindici giorni, durante i quali cercarono di riformarmi. Una storia buffa… Insomma, con il mio amico Bernard Quentin nel 1963 mi imbarcai sul France per gli Stati Uniti. Quando arrivai a New York non avevo un soldo, mi stabilii al Chelsea Hotel, un posto incredibile perché era il momento della Pop Art e di cose con cui a Parigi non venivo per nulla a contatto. A Parigi ero in contatto solo con il Groupe des Arts Visuelles, gente che faceva cose che avevano un influsso su di me. Facevano opere visive, strutture meccaniche astratte tridimensionali, opere cinetiche. Avevano anche un taglio fantastico nel disegno, che credo si possa dire appartenesse anche al mio modo di lavorare; o quanto meno i loro lavori mi piacevano. A New York esponevo in una galleria, più qualcosa in vari posti, MoMA compreso. Più tardi ho esposto insieme ad alcuni artisti pop. Ma in effetti lavoravo per conto mio, nella mia stanza del Chelsea Hotel, e non ero in contatto con molti gruppi. Più che altro realizzavo costruzioni tratte dai miei vecchi disegni, facendo soprattutto film d'animazione, tentando di trasmettere il senso del movimento ai disegni facendoli scorre uno sopra l'altro usando un motore, che faceva scivolare il disegno su e giù sopra una copia. Credo che fosse il mio modo di contribuire al lavoro degli 'artisti cinetici'. Da New York mi trasferii a Montréal, dove avevo un contatto per un possibile lavoro all'Expo 67, ma era una cosa molto vaga. Andai a un convegno d'arte a Mont Royal, dove al mio arrivo mi sistemai in una vecchia casa, una stazione di polizia. Il convegno era organizzato da Vaillancourt, Roussil e altri, e volevo solo dare un'occhiata. Dopo quindici giorni a Montréal conobbi un farmacista, Bill Sofin, perché un suo amico di New York mi aveva chiesto di portargli una cosa. Ci mettemmo a parlare e Sofin mi domandò che cosa facevo e così via. Gli dissi che studiavo architettura e lui esclamò: "Fantastico, molto interessante. Sto aprendo un drugstore, ti piacerebbe occupartene?" Ho risposto che sì, il lavoro mi sarebbe anche piaciuto, ma non avevo un posto in cui stare; e lui rispose che non c'era problema, potevo sistemarmi dove lavoravo. E mi trovai ad abitare in Mountain Street, in un appartamento sopra il futuro drugstore, feci il progetto e coordinai la realizzazione. Lo progettai in una settimana, con qualche schizzo e pochissimi particolari tecnici; per realizzarlo ci vollero due mesi; et voilà Le Drug! Il negozio era inserito in una pianta allungata, tipica delle abitazioni di Montréal. Era su due livelli: sopra c'era la farmacia, che era una specie di spazio espressionista astratto; e sotto c'era il ristorante, che era una specie di grotta decorativa, una formazione di stalattiti e stalagmiti con vecchi tavoli avvolti nella rete metallica e poi spruzzati di cemento, sabbiati, dipinti di bianco e verniciati. Insomma il posto era morbido di sotto e duro di sopra. Sul retro di Le Drug c'erano una boutique di moda e la galleria La Beaux, che gestivo io. Feci mostre di Warhol, di Lichtenstein e di altri: era la prima volta che le loro opere venivano esposte sistematicamente a Montréal. La galleria era un po' come un appartamento privato, uno spazio piccolo e molto personale, e io vendevo delle stampe pop, come quella di Warhol con Elizabeth Taylor, a 15 dollari l'una. Le Drug restò aperto per due anni e poi scomparve. Fondamentalmente si faceva molta fatica a tener pulito il ristorante e l'interno lucido: il proprietario doveva ricorrere a degli inservienti che passavano troppo tempo in ginocchio sul pavimento a grattare con spazzola e detersivo.

Dallegret nella sua casa studio, alla metà degli anni Sessanta
Dallegret nella sua casa studio, alla metà degli anni Sessanta
All'incirca nello stesso periodo, nel 1965, hai realizzato dei disegni per il celebre articolo di Reyner Banham A Home is Not a House. I tuoi disegni divennero icone tra le più famose della cultura architettonica degli anni Sessanta.
In certo qual modo ho cominciato con Peter Blake, che pubblicò il mio disegno su Architectural Forum. Gli avevo spedito una lettera con alcune riproduzioni dei miei disegni di quando stavo ancora a Parigi. Non so nemmeno come avessi conosciuto la rivista, credo di averla conosciuta quando mi sono trasferito a New York… Comunque Peter Blake fu entusiasta dei miei disegni e li pubblicò, il che a New York mi aprì molte porte, perché lui e i suoi amici mi invitavano ai loro incontri tra grandi esclamazioni di meraviglia. Dopo di che conobbi qualcuno di Esquire e poi qualcuno di Art in America, e feci delle illustrazioni per alcuni articoli. Alla fine venne fuori la faccenda di Reyner Banham. Non sapevo chi fosse Banham e all'epoca non avevo idea del genere di gruppi che sosteneva, come Archigram. Ero completamente all'oscuro: ero all'oscuro di tutto, allora come adesso!

Il Palais Metro, in un fotogramma dal video François Dallegret: Spring Cleaning, 2008
Il Palais Metro, in un fotogramma dal video François Dallegret: Spring Cleaning, 2008
Il famoso spazio a bolla che disegnasti per A Home is Not a House aveva un carattere più architettonico dei disegni di automobili, perché era fatto per abitarci. Forse i disegni di automobili erano più simili a fantasie alla Jules Verne. Ma la bolla poteva essere collegata e gonfiata. A che cosa miravi in questa serie di disegni?
I disegni di auto esprimevano solo il mio interesse per l'automobile in quanto tale: in certo qual modo l'Introconversomatic ne era un ampliamento. Mi limitavo a buttar giù queste cose, non c'era nessuna vera intenzione di spiegarle. Quando capitò la collaborazione con Art in America, fu la stessa cosa: devo aver letto l'articolo dio Banham e mi ha ispirato. A Home is Not a House sotto certi aspetti era simile all'Introconversomatic perché si trattava di un dispositivo da alimentare. E poi conobbi Banham a New York tramite Art in America e parlammo del suo articolo. Lessi l'articolo e poi feci i sei disegni, mi ci vollero tre mesi circa. In certo qual modo, anche se i disegni esprimevano una certa idea di tecnologia, avevano bisogno di un testo che li accompagnasse, e quindi le due cose andarono avanti insieme. Mi parve che il testo fosse molto netto a proposito del corpo, e quindi decisi che se si doveva vivere in una bolla bisognava essere completamente nudi, non importa avere un bel vestito o una cravatta carina perché tutto era già dentro la bolla. Mentre realizzavo i disegni pensavo che Banham sarebbe entrato con me nella bolla, ma non volle posare nudo! Gli chiesi una fotografia di lui nudo, ma non acconsentì. Non so perché, forse non era nelle sue corde. E perciò presi il mio corpo e ci misi sopra la sua testa. Si vede che non è il suo, di corpo! Credo che si sia fatta una risata, era molto disponibile. Banham e io diventammo molto amici. Venne all'Expo 67 e stette in casa mia, rimanemmo in contatto fino alla sua morte. Nel 1968 mi invitò al convegno di Aspen, dove incontrai delle persone davvero di primo piano, come Hans Hollein e gli Archigram. Ancora una volta non conoscevo queste persone e il loro lavoro prima di arrivare lì: ero completamente tra le nuvole, non ci facevo molto caso (forse sapevo che Archigram stava progettando un palazzo a Montréal). Si rivelò come un giro molto amichevole, aperto e informale, e poi ovviamente si era d'estate. Feci una presentazione sotto il tendone, una proiezione di diapositive dei miei lavori, compresi Le Drug e altre immagini. Ma ero così timido che chiesi di spegnere tutte le luci. Le cose piacquero: i presenti reagirono alla fantasia e al divertimento dei miei disegni, al loro taglio informale. Realizzai il KiiK di Aspen, il manifesto e la grafica del convegno, che comprendeva un berretto, e vendetti il KiiK. Il KiiK era un piccolo "serbatoio" a forma di manubrio da palestra, per sentirsi a proprio agio, contenti, cose così. Il KiiK a quell'epoca era all'incirca come lo Svobodair di Hollein, una specie di magica corrente d'aria personale. Ma il KiiK era un po' differente: lo si teneva in mano per sentirsi a proprio agio, oppure per sentirsi fortissimi, oppure lo si poteva ingoiare. Il che capitò davvero: mi ricordo di una ragazzona che mi disse di averlo ingoiato! E quando le chiesi "Ma che cosa è successo?" si mise a ridere e rispose con franchezza "Ah ah, l'ho rifatto!". Mi sentii sollevato e le dissi che ero contento che non si sentisse a disagio per l'esperienza, e lei rispose che no, lo trovava molto, molto interessante… Ecco, insomma, le persone dicevano che usavano il KiiK per fare cose di tutti i tipi: era questione di scelta, ingoiarlo, cose così… Ho usato il KiiK per progetti di ogni genere: il Dollar Bill, per esempio, pubblicato sulla rivista Avant-Garde.

La foto originale usata per il celebre collage di A Home is not a House 1965, in un fotogramma dal video François Dallegret: Spring Cleaning, 2008
La foto originale usata per il celebre collage di A Home is not a House 1965, in un fotogramma dal video François Dallegret: Spring Cleaning, 2008
Per tornare a Montréal… Come sei passato da Le Drug, la tua prima costruzione, al Palais Métro?
Be', il Palais Métro fu una cosa completamente diversa. Era il 1968, subito dopo l'Expo 67. La Concordia Estates, la società immobiliare di Place Bonaventura, chiese a Joseph Baker e a me un progetto di massima per il vecchio Palais de Commerce, che era anche una vecchia pista di pattinaggio e un locale pubblico. Joe Baker e io avevamo lavorato un po' insieme anche per La Ronde all'Expo 67. L'idea del Palais Métro era realizzare un'installazione temporanea con degli stand per negozi che potevano essere impilati uno sull'altro, o essere inseriti gli uni negli altri e facilmente sostituiti. Volevamo introdurre il movimento nel concetto di centro commerciale, che sarebbe diventato un villaggio dalla grafica fluorescente e pop. Perciò progettai una valigia che conteneva un registratore che riproduceva l'"atmosfera" desiderata del luogo, con il rumore della gente che andava su e giù, o rideva, o faceva acquisti e via dicendo. La valigia era lunga e nera, con pannelli a collage che illustravano gli scopi del progetto. Sei o sette di queste valigie vennero affidate a venditori che andarono in giro, con le loro scarpe a punta, a vendere l'idea: tranne che non funzionò perché subito dopo l'Expo 67 tutti erano stanchi morti ma soprattutto completamente al verde! Joe Baker e io finimmo col realizzare parte del progetto a Kansas City verso il 1972. L'idea era la stessa, tranne che usammo delle canne da pesca per la struttura e per tutti i cubicoli. Non mi ricordo come ottenemmo l'incarico, credo di aver avuto un amico che viveva a Kansas City, e in un modo o nell'altro conobbi il presidente di Hall Mark Cards e —credo—gli feci vedere il Palais Métro. Hallmark aveva realizzato la struttura del suo centro commerciale Crown Centre, e c'era una parte chiamata West Village dove costruimmo la nostra versione di Palais Métro.

La prima opera di Dallegret a Montreal: il ristorante Le Drug
La prima opera di Dallegret a Montreal: il ristorante Le Drug
Perché Banham incluse il Palais Métro nel suo libro Megastructure? Dichiara che fu "la migliore" della megastrutture…
Non lo so. Mi pare di avergli fatto vedere che cosa stavo facendo, e lui ne fu interessato, ma non c'è un'altra ragione. Suppongo che facesse parte della corrente dei centri commerciali, ma il Palais Métro era diverso perché era fatto di componenti provvisori come le scaffalature. In realtà nel 1968 a Montréal, a Stanley Street, feci una discoteca che si chiamava New Penelope, fatta di tubi di metallo per scaffalature: tutto fatto così, sedili e via dicendo. Allora non ero sposato, stavo con una ragazza, e c'è una foto di noi due con il complesso che si prepara a suonare, un celebre gruppo rock… Sì, era Frank Zappa. Allora non sapevo chi fosse…

Nel 1969 hai cominciato a chiamarti Goda & Co. ("Dio & Soci). Perché questo nome?
L'origine è a New York, nel 1965. Facevo dei timbri di gomma autoinchiostranti con la scritta GOD, poi andavo in metropolitana e—tac tac tac—mettevo Dio dappertutto. Ma GOD in realtà significava "GO Dallegret!", "Forza Dallegret!". Nello stesso periodo, alla fine degli anni Sessanta, mi ero dato il soprannome di Aesthéticien Acid, "Estetologo all'acido". "Acid" significava "Association Canadienne Industrial Designers", "Associazione canadese degli industrial designer". Forse l'ispirazione del nome veniva dall'LSD. La mia carta intestata portava la dicitura "God & Co. – Aesthéticien Acid". Ero fuori di testa… God & Co. era uno studio di progettazione. Ma non facevamo proprio industrial design. Facevamo piuttosto tirature limitate. Feci tutti quegli oggetti come il KiiK e l'Atomix, che vendevo soprattutto al Museum of Modern Art, e anche La Machine e Tubula, nell'ambito di God & Co. Non erano incarichi. Li facevo per me stesso e poi cercavo di venderli in un secondo tempo. Avevo davvero pochi incarichi. C'era molto da divertirsi, questo era l'importante: far festa. Avevo delle carte di credito rilasciate a God & Co. Credo che oggi non si potrebbe più fare, ma allora piaceva proprio, ci si buttarono a capofitto.

Definito da Art in America the "il centro commerciale più all'avanguardia del mondo" il Palas Metro, una labirinto multilivello dedicato al commercio alle fiere e ad attività ludico-ricreative, fu inserito da Reyner Banham in Megastructure: Urban Futures of the Recent Past, 1976
Definito da Art in America the "il centro commerciale più all'avanguardia del mondo" il Palas Metro, una labirinto multilivello dedicato al commercio alle fiere e ad attività ludico-ricreative, fu inserito da Reyner Banham in Megastructure: Urban Futures of the Recent Past, 1976
Dopo aver dato inizio ad Artorium hai cominciato a prendere le distanze dalla produzione di oggetti piccoli ed effimeri, e hai iniziato a lavorare a progetti site-specific e di grande scala, di natura quasi infrastrutturale. Come è avvenuta questa transizione?
Be', facevo questi oggettini da vendere a posti come il MoMA, ma le cose cominciarono a cambiare: cambiò il buyer del MoMA, cambiarono le condizioni di lavoro, e allora smisi di fare oggetti piccoli per dedicarmi a cose più grandi. Quando consideravo gli oggetti piccoli non c'era nessuna idea della scala. È il concetto della formazione dell'architetto: un architetto lavora a qualunque scala. È solo che con il tempo è l'idea di scala che è cambiata, credo per ragioni di mercato. Così mi sono rivolto a cose più grandi perché aveva più senso. Il progetto Tour de 300 mètres è del 1979. Mi è sempre piaciuta la Tour Eiffel. È una struttura incredibile, costruita in meno di due anni. Ho comprato tre copie dei libri realizzati dallo stesso Eiffel sulla sua torre (la tiratura fu di 500 copie). Era un'opera in due volumi in folio: uno di disegni, l'altro di testi. Mi sono permesso di smembrarne una copia e di estrarne delle singole pagine per esporre gli schemi e le fotografie delle tavole che ho chiamato "tavole dei piloni", che avevano una base ispirata a quella dei piloni degli elettrodotti ma assomigliavano naturalmente anche alla base della Tour Eiffel. L'idea era di esporre una serie di queste tavole che mostravano i disegni. Mi piaceva la raffinatezza dei disegni di Eiffel e la spiegazione che accompagnava ciascuno di essi. Penso che sarebbe stato un piacere osservarne al qualità magica.

I tuoi progetti recenti riguardano la luce, come Porte-Lumière.
È un progetto del 2001, che ho elaborato a Trélazé, vicino ad Angers. È una vecchia cava di ardesia abbandonata che risale al Medioevo: 150 ettari di mucchi di pietre e di specchi d'acqua, un posto molto magico e scabro. La pianura di pietra è divisa da una strada costruita dieci anni fa, e quindi volevo sottolineare che la strada taglia questo campo compatto con delle luci che si spandono sulla piana di pietra in cui tutto è addormentato, in cui non accade nulla. Ho installato dei pilastri alti 11 metri realizzati appositamente per il sito, ma è come se ci fossero sempre stati, come attrezzature d'autostrada. Ogni pilastro ha quattro lampade per lato che emettono raggi di luce seguendo il movimento delle auto che passano. Purtroppo le lampade della Philips hanno un cono molto più largo di quel che volevo: io lo volevo stretto, un cono luminoso di 10 gradi, e invece è più largo. Si suppone che dovessi sistemarlo… La luce ha una specie di qualità magica, non sai se la vedi o no. Ma la luce è anche nemica dell'ambiente, troppe luci dappertutto: come la Tour Eiffel, illuminata da lampade stroboscopiche, una cosa che mi pare ridicola perché non si armonizza con la mole della torre. Era molto meglio prima, quando la Tour Eiffel era illuminata da lampade invisibili, che facevano brillare la struttura e le davano un rilievo tridimensionale. Pare che si voglia ridurre il numero delle lampade stroboscopiche per via del costo. E comunque è una vergogna che la Tour Eiffel venga distrutta da queste maledette luci stroboscopiche!

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