C'era una volta...

La mostra curata da Joan Young sottolinea un approccio comune ad alcuni video artisti nel raccontare il mondo contemporaneo: la creazione di un mito, la scrittura di una fiaba.

La fiaba sembra quanto di più vicino conosciamo all'atto nudo del raccontare. Vuoi perché – da "pubblico" – tutti abbiamo cominciato da lì; vuoi perché, come sosteneva il teorico russo Vladimir Propp, la struttura della fiaba contiene gli elementi di base di ogni possibile costruzione narrativa, per complicata che sia (antagonisti, trappole, difficoltà, ribaltamenti); vuoi perché, secondo la rielaborazione lacaniana delle teorie di Freud, le fiabe danno forma diretta agli stereotipi culturali delle nostre paure e speranze: c'è qualcosa, comunque, nella fiaba, che sembra farne il cuore o il veicolo profondo o l'arma più essenziale e affilata per trasportare con la parola le storie che maggiormente teniamo a raccontare. Le grandi narrazioni e le piccole paure, i fantasmi del passato e gli incubi del presente tendono a condividere, in modo più o meno esplicito, questo: iniziano dicendo "c'era una volta".

C'era una volta (Once Upon A Time) è anche il titolo di una mostra visibile fino al 9 ottobre al Deutsche Guggenheim di Berlino, curata da Joan Young e dedicata all'elemento fiabesco e fantastico nel film d'artista a cavallo fra XX e XXI secolo. La mostra raccoglie sei opere video selezionate dalla collezione del Guggenheim per evidenziare un approccio comune adottato da artisti di fama internazionale (Francis Alÿs, Cao Fei, Pierre Huyghe, Aleksandra Mir, Mika Rottenberg e Janaina Tschäpe) nel rapportarsi alla narrazione del mondo contemporaneo: la creazione di un mito, la scrittura di una fiaba.
Vista della mostra <i>One upon a time</i>. Photo Mathias Schormann. © Deutsche Guggenheim.
Vista della mostra One upon a time. Photo Mathias Schormann. © Deutsche Guggenheim.
L'opera forse più rappresentativa della selezione è Whose Utopia?, un video realizzato dall'artista cinese Cao Fei nel corso di una residenza, durata mesi, negli stabilimenti produttivi della Osram, nel 2006. Whose Utopia? si compone di quattro parti, e ritrae la vita della fabbrica e di chi vi lavora attraverso un alternarsi di scene "costruite" e quadri o ritratti della sua quotidianità. Sotto un commento musicale che oscilla fra il poetico/evocativo e un'ironia quasi rock, lo spettatore segue la progressione danzata di una fata e un operaio attraverso i capannoni vuoti, popolatisi poi gradualmente degli operai che sembrano non notare ciò che hanno attorno. In un'altra sezione del video, quegli stessi operai sono ritratti alle loro postazioni di lavoro, sorridenti – o quasi: giovani venuti da una campagna in trasformazione o da periferie già degradate, attratti dal canto flautato del distretto industriale a massima espansione del mondo, con la promessa di un futuro brillante in contrasto stridente con le loro condizioni visibili. "My future is not a dream", dice la canzone di accompagnamento, e recitano in chiusura le loro magliette: il mio futuro non è un sogno, nonostante la scelta di sguardo adottata dall'artista suggerisca, con un'ironia un po' amara, il contrario.
Janaina Tschäpe, <i>Lacrimacorpus</i>, 2004. Video a colori con sonoro, 3 min., 36 sec. © 2011 Janaina Tschäpe, Courtesy Sikkema Jenkins & Co., New York.
Janaina Tschäpe, Lacrimacorpus, 2004. Video a colori con sonoro, 3 min., 36 sec. © 2011 Janaina Tschäpe, Courtesy Sikkema Jenkins & Co., New York.
Specularmente al tentativo di Cao Fei di raccontare la realtà attraverso una chiave fiabesca si colloca l'altro estremo ideale della mostra: la creazione del mito, scopo evidente del famoso progetto che il belga Francis Alÿs ha realizzato nel 2002, When Faith Moves Mountains. L'artista ha coinvolto cinquecento persone nel laboriosissimo spostamento di una montagna, pale e picconi alla mano, di un pugno di centimetri appena. La performance è documentata da una proiezione a tre canali, che mostra i lavoratori profilarsi sull'orizzonte della collina di polvere quasi come un miraggio, smerigliati dalla canicola, dediti all'atto di fede che incarna un gioco di parole nella realtà: un atto faticoso, poetico e, naturalmente, inutile. C'è forse qualcosa di tristissimo, o di paradossale, nella constatazione che l'aspetto effettivamente fantastico dell'azione di Alÿs derivi dalla sua artificiosità (si tratta, in fondo, di un progetto d'artista: un "mito" impiantato nella realtà mediante l'azione collettiva). La medesima dimensione fiabesca, usata da Cao Fei per descrivere e non per creare, si rivela in fondo ambivalente ed amara. Le fiabe vere, sembra recitare questa constatazione, sono quelle finte: per quanto lo si possa cercare, il fantastico è nel reale solo nella misura in cui siamo noi stessi a mettervelo.
Vista della mostra <i>One upon a time</i>. Photo Mathias Schormann. © Deutsche Guggenheim.
Vista della mostra One upon a time. Photo Mathias Schormann. © Deutsche Guggenheim.
La stessa rassegnazione, o ipotetica delusione, si avverte nel contrasto composto dalle altre opere. In Dough (2006), Mika Rottenberg mette in scena una catena di montaggio ridicola e surreale, in cui i corpi spesso deformi di un gruppo di lavoratrici sono coinvolti direttamente nei macchinari per la produzione industriale di impasto. Ma, un po' come in Brazil di Terry Gilliam (cui l'estetica di Dough pare, forse, ispirata), la dimensione caricaturale sfocia presto nel grottesco, e quella che da certi colori e da alcune immagini sembra una fabbrica fantastica si rivela come un incubo fordista di totale sottomissione dei lavoratori alle esigenze produttive. Di contrasto, l'atmosfera di First Woman on The Moon (Aleksandra Mir, 1999) è molto diversa: un gruppo di donne rievoca, con un misto di gioia ed epicità, i gesti degli astronauti sbarcati sulla luna, in una spiaggia olandese trasformata allo scopo. Anche qui si ha a che fare con la creazione di un mito (lo sbarco femminile nello spazio): ma un mito la cui falsità solleva domande scomode sul reale – nello specifico, sul ruolo femminile nella grande epica del novecento, e sullo statuto spesso mitografico di quest'ultima. Vincenzo Latronico
Vista della mostra <i>One upon a time</i>. Photo Mathias Schormann. © Deutsche Guggenheim.
Vista della mostra One upon a time. Photo Mathias Schormann. © Deutsche Guggenheim.
Vista della mostra <i>One upon a time</i>. Photo Mathias Schormann. © Deutsche Guggenheim.
Vista della mostra One upon a time. Photo Mathias Schormann. © Deutsche Guggenheim.
Mika Rottenberg, <i>Dough</i>, 2006. Installazione video a colori con sonoro, 7 min. Solomon R. Guggenheim Museum, New York. © 2011 Mika Rottenberg, Courtesy Nicole Klagsbrun Gallery.
Mika Rottenberg, Dough, 2006. Installazione video a colori con sonoro, 7 min. Solomon R. Guggenheim Museum, New York. © 2011 Mika Rottenberg, Courtesy Nicole Klagsbrun Gallery.
Aleksandra Mir, <i>First Woman on the Moon</i>, 1999–, Video a colori con sonoro, 12 min., prodotto da Casco Projects, Utrecht, Wijk aan Zee, The Netherlands. Solomon R. Guggenheim Museum, New York. © VG Bild-Kunst, Bonn 2011.
Aleksandra Mir, First Woman on the Moon, 1999–, Video a colori con sonoro, 12 min., prodotto da Casco Projects, Utrecht, Wijk aan Zee, The Netherlands. Solomon R. Guggenheim Museum, New York. © VG Bild-Kunst, Bonn 2011.
Cao Fei, <i>Whose Utopia</i>, 2006. Video a colori con sonoro, 22 min. Solomon R. Guggenheim Museum, New York. © 2011 Cao Fei, Vitamin Creative Space, Guangzhou.
Cao Fei, Whose Utopia, 2006. Video a colori con sonoro, 22 min. Solomon R. Guggenheim Museum, New York. © 2011 Cao Fei, Vitamin Creative Space, Guangzhou.

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