Facciamo un esempio. Il dodici ottobre 1492, Rodrigo de Triana vide un puntino di terra in mezzo al mare. L'orizzonte deserto, la linea senza fine, si ravvicinò all'improvviso. A quel punto si poteva disegnare una mappa. Si poteva tracciare una linea. Con una penna si poteva tracciare, dalle isole Canarie alle Bahamas, delle rotte commerciali, elementi fisici che solcavano i mari, un abbozzo di futuro. Ma la linea connette solamente i punti: la linea crea i punti. Ora ci sono un "vecchio mondo" e un "nuovo mondo". Senza la linea che li unisce, questi punti non esisterebbero.
La supposizione in questo discorso è che la linea sia dritta e che questa eventualmente finisca. Questa è la tirannia della linea contro la quale l'arte moderna lanciò la sua lunga battaglia. Duchamp dichiarò che le misure sono relative.(1) Piero Manzoni che l'arte contiene una linea di lunghezza infinita. Hundertwasser spostò la battaglia su un piano teologico: "La linea dritta è atea". La tirannia, allora, si celava nel come questa era tracciata. Ma la linea stessa rimase.
Tale è lo scotto dell'immaginazione modernista: può immaginare una moltitudine di forme, ma in cambio deve liberarsi della capacità di pensare aldilà della forma stessa. Troviamo questo concetto espresso in modo simile anche nell'inversione del sole modernista. Si può pensare egualmente alla Vittoria sul Sole, l'opera futurista russa del 1913. Quando Malevich scoprì il suo quadrato nero, egli sconfisse il sole, ma non sconfisse ciò che il sole rappresentava: la forma stessa rimase. La platonica verità razionale era morta, ma una nuova verità, una verità "priva di logica" si era insediata al suo posto. È proprio questa binarietà che ben presto si dipanerà: linea finita/linea infinita; verità logica/ verità priva di logica. L'una esiste a fianco dell'altra; nessuno delle due prevale.
Forse un'analogia politica ci aiuterà. Dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti e la Russia non iniziarono solamente una corsa agli armamenti, ma anche una corsa neo-coloniale. Per il resto del mondo era solo una questione di allineamento: o si era con i sovietici o con gli americani, o, come Bartleby, si poteva anche restare neutrali, si poteva decidere di "dire di no", ma nel farlo si rimaneva inevitabilmente schiacciati dal passo della storia che richiedeva delle decisioni chiare.
Allineamento, naturalmente, rappresenta un certo tipo di linea. Il Sole Platonico, dopotutto, ha sempre significato un movimento verso l'alto – distaccati dai fatti comuni della vita terrena e rivolti alla verità degli dei al disopra del mondo. Se noi seguiamo il diagramma delle inversioni di Malevich, gli USA rappresentavano il sole platonico: il tentativo di elevare altre nazioni verso la verità della democrazia capitalistica. L'Unione Sovietica, con una positività all'inversione, cercava di trascinare "giù" altre nazioni verso la verità dell'eguaglianza socialista. In entrambi i casi, la linea era percepita verticalmente.
Poi nel 1955 una nuova posizione fu suggerita a Bandung in Indonesia: non-allineamento. Essere non-allineato voleva dire non accettare la verticalità della linea imposta dagli USA o dall'Unione Sovietica. Il movimento del non-allineamento offriva quindi qualcosa di nuovo a quei paesi che allora (e spesso anche oggi) erano chiamati del Terzo Mondo: vale a dire, una linea orizzontale. Gli assi delle opposizioni si estesero da alto/basso a verticale/orizzontale.
La crisi nel mondo dell'arte che seguì il periodo modernista può essere vista come simile alla crisi politica che venne dopo Bandung. Le contraddizioni essenziali tra finito e infinito, o tra passato coloniale e presente post-coloniale non si sono mai riconciliate – forse, addirittura, non sono mai state posizioni riconciliabili tra loro. Sicuramente la questione non è quella di legare il destino dell'arte o della politica l'una all'altra in una relazione privilegiata, ma piuttosto è quella di vedere come ognuna si relaziona alle crisi che sono contemporaneamente formali e intrinseche, informali ed estrinseche.
Non dovrebbe meravigliarci, allora, il numero crescente di appelli da parte della sinistra internazionale a supporto di nuove o utopiche visioni. Slavoj Zizek, Fredric Jameson e David Harvery, hanno scritto recentemente sul concetto di Utopia.(2) Gayatri Spivak ha proposto la necessità di una nuova politica di re-immaginazione planetaria.(3) Il famoso slogan del World Social Forum riassume tutto ciò in poche parole: "Un Altro Mondo è Possibile". Quello che vediamo in questo caso è una semplice inversione: stagnazione/immaginazione; chiuso/aperto; impossibile/possibile.
Neanche l'arte contemporanea è riuscita a riconciliare queste contraddizioni – ha cercato solamente di seppellirle ulteriormente. Il titolo inventato da Daniel Birnbaum per la 53° Biennale di Venezia dimostra proprio questo: "Fare Mondi // Making Worlds // Bantin Dunayin // Weltenmachen …"Con il contenere in se la traduzione stessa del titolo (invece di avere un titolo differente in ogni pubblicazione in lingua straniera), Birnbaum ha voluto suggerire un mondo artistico che fosse in se pluralistico e attivo – fare mondi e, allo stesso tempo, rifiutare di proclamare uno di questi come l'unico mondo.
La democrazia americana, l'economia sovietica, l'orizzontalità di Bandung, le nuove utopie, i nuovi mondi (novi mundi // mundos nuevos …), hanno il loro posto nella formazione dei mondi contemporanei in cui viviamo.
Il timido suggerimento che voglio fare qui, è proprio quello che ci sono ancora delle cose da fare aldilà di ciò. Questi modelli hanno a che fare con il mondo(i) in cui già viviamo, che è come dire le realtà delle linee, delle connessioni e relazioni, il mondo come era nel 1492.
Nel saggio, "1492: A New World View", Sylvia Wynter ha suggerito in modo provocatorio che Colombo, arrivando in America, ha rappresentato allo stesso tempo una parodia e la genialità inventiva. Ha creato precisamente la prospettiva della possibilità stessa di avere una visione del mondo: egli rese possibile la tirannia della linea e dell'anti-linea. Ci regalò il dolce e l'amaro della vita odierna.
La risposta che Wynter dà alla provocazione è di non rimanere fermi al momento di questa visione della realtà. Piuttosto, l'autrice insiste, "Ora si deve replicare la scoperta di Colombo di una "nuova prospettiva del mondo' creando una nuova 'immagine dell'umanità' basata su una schema aldilà delle razze, di totale altruismo e oltre i limiti dei soggetti nazionali e le nazioni-stato". In una semplice frase, poi, Wynter riesce a sintetizzare allo stesso tempo il bisogno di una nuova visione e il contenuto di questa.
Il problema qui è che la creazione di una visione produce sempre degli opposti, del dissenso, delle recriminazioni. Infatti, argomenti come "altruismo" e "oltre le nazioni-stato" sono già stati attaccati dai teorici del post-colonialismo quali Pheng Cheah e David Scott.(4)
Quello che sembra importante allora nei suggerimenti di Wynter non è il contenuto della frase, ma l'orizzonte aperto di una nuova immagine in grado di rimpiazzare Colombo.
Forse esiste anche una strategia alternativa. Torniamo al 12 ottobre 1492 e alla visione di Triana. Torniamo, precisamente, a un momento prima della scoperta. Ritorniamo al momento prima della linea, quando l'unica cosa che si vedeva era l'orizzonte.
Ritornare all'orizzonte non vuole dire fare una proclamazione utopica – infatti, sappiamo già che al momento dell'orizzonte seguirà la scoperta della linea. È piuttosto proprio l'opposto. Vuole dire dare ragione al filosofo Emmanuel Levinas quando scrive, "anche se siamo entrati troppo tardi in un mondo creato senza di noi, siamo comunque responsabili qualunque sia [la nostra] esperienza…".(5) Tornare all'orizzonte vuole dire ricordare a noi stessi del fatto che non possiamo creare mondi, non possiamo immaginare un futuro migliore, non possiamo creare una "nuova immagine dell'umanità" fino a quando non risolveremo le richieste irrefrenabili del mondo che abbiamo già creato.
Ritornare all'orizzonte vuole anche dire ricordarsi dei limiti delle nostre opposizioni e furberie, ma non necessariamente per scartarle. "Silenzio, furberie ed esclusione"(6) hanno ancora un ruolo da giocare, ma devono convivere con altri modelli: fare domande, responsabilità e partecipazione. Questo ritorno, inoltre, significa anche aggiungere alla domanda generale, "che cosa c'è all'orizzonte?", quella altrettanto necessaria, "qual è l'orizzonte che ci siamo lasciati alle spalle e che abbiamo dimenticato troppo in fretta?"
(1) 3 stoppages étalon
(2) Zizek, In Defense of Lost Causes; Jameson, Archaeologies of the Future; Harvey, Spaces of Hope
(3) "Planetarity" in Death of a Discipline
(4) Cheah, Inhuman Conditions; Scott, Conscripts of Modernity
(5) Dal saggio, "Substitution"
(6) James Joyce, Portrait of an Artist as a Young Man
Avi Alpert studia per il dottorato in 'Program in Comparative Literature and Literary Theory' all'università della Pennsylvania, dove si è dedicato allo studio delle influenze dello Zen nel continente americano e il suo impatto sulle arti. Collabora anche con Machete, un art-zine di Filadelfia. Alcuni suoi scritti sono stati pubblicati in Postcolonial Studies, Shifter, e Third Text (2010).