Souvenir dalle postcolonie

I variegati 'reperti' di un viaggio in Etiopia diventano una riflessione sull'altro nella mostra di Deborah Ligorio alla Galleria Francesca Minini di Milano.

Uno degli argomenti centrali della teoria postcolonialista illustra l'impossibilità di comprendere – di rapportarsi – anche solo di descrivere un sistema culturale o simbolico altro rispetto al proprio: perché non lo si può tradurre; perché il senso stesso di 'comprendere' risulta, al mutare del paradigma, mutato; perché credi di parlare d'altri e invece parli di te.

Per quanto politicamente correttissimo e moralmente irreprensibile, questo argomento sembra implicare una rinuncia: tanto a un complesso di contenuti discorsivi (le culture 'lontane') quanto a un sistema di forme, e simboli, per rappresentarli: sembra una costrizione a parlare di ciò che si conosce meglio, e che pertanto è meno interessante: se stessi, il proprio mondo, il proprio ombelico. Sconfinare in un altro territorio, sostiene questo argomento, significa giocoforza indossare la sahariana e imbracciare il moschetto: significa colonizzarlo.

La mostra di Deborah Ligorio alla Galleria Francesca Minini – "Poi non così diverso", dal 19 maggio al 24 luglio – sembra proporre una via diversa allo sconfinamento. Si presenta come una riflessione sull'altro, su ciò che è lontano, caratterizzato in termini oggettivi di 'precapitalismo', ma anche come 'strano' ed 'esotico': include oggetti, tessuti, immagini, tutti originati da un viaggio in Etiopia, tutti ricomposti. Un souvenir dalle postcolonie.

Due imponenti installazioni dominano gli spazi della galleria. La prima, un po' compressa nello spazio iniziale, è una sorta di sfilata di colonne sospese: colonne fragili, fatte di stoffe reperite nel viaggio o di collane sfilate e riassemblate, fatte di cordini da scalata e oggetti 'tribali', per qualche senso del termine. Su due lembi di stoffa sono proiettati due video in cui è visibile la mano consueta di Deborah Ligorio; due altri sono visibili su piccoli lettori digitali. La seconda installazione, similmente, ricorda la vela di una piccola deriva, occupa la stanza da soffitto a pavimento: è composta di lembi di stoffa, alcuni provenienti da un mercato di Berlino (e all'apparenza 'esotici'); altri dall'Etiopia (e apparentemente 'occidentali'). Le stecche della vela sono rami o bastoni trovati; sullo sfondo si sente un miscuglio di suoni di repertorio di Hollywood e registrazioni del luogo, ancora un'interferenza, una sovrapposizione di origini. Alle pareti delle sale è esposta una serie di collage, ottenuti mescolando dettagli di foto prese nel viaggio e immagini di magazine patinati: strisciate d'inchiostro, mani, brandelli di corpo.

Nonostante la provenienza dei materiali, non c'è nulla di esotico in questa mostra di Deborah Ligorio. O meglio: c'è molto di esotico, perché esotici sono molti dei punti di partenza di questi suoi lavori. Ma ciò appunto sono: punti di partenza. I risultati, le opere in mostra, sono astratti al punto da rinunciare, esplicitamente, a ogni richiamo alla descrizione dell'altro, alla sua rappresentazione. Sono lì, confondono origine e destinazione con un misto di ironia e inesorabilità, sono portatori sani di post-colonialismo: vai altrove e cosa puoi sperare di portar con te al ritorno? Frammenti confusi a ciò che avevi in valigia, frammenti che non compongono alcuna narrazione coerente, frammenti, frammenti. Vincenzo Latronico

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