Intervista a Shirin Neshat

L'artista iraniana, Leone d'argento a Venezia, si racconta a Gabi Scardi: dall'approccio nomade che la porta a sperimentare diversi linguaggi al rapporto irrisolto con il suo Paese d'origine.

Shirin Neshat, artista e regista, nelle sue opere conduce da oltre un trentennio un discorso sull'identità. Benché risieda a New York da quando aveva diciassette anni, al centro della sua attenzione c'è sempre stato l'Iran, suo Paese d'origine, e in particolare la condizione della donna iraniana. È una di quelle artiste che, spinte dall'esigenza di vedere e rappresentare non solo l'ambiente da cui provengono, ma anche quello in cui si trovano attualmente, riescono tramite il linguaggio dell'arte a creare un dialogo tra il presente e i miti della loro terra d'origine, da un lato, e la cultura del paese in cui si sono trasferite, dall'altro. Nella loro ubiqua situazione culturale sentono la necessità di opporsi all'automatismo dei luoghi comuni, su cui non si è mai davvero riflettuto a fondo – se mai ci si è riflettuto – per superare qualunque definizione a priori e permettere la coesistenza di Weltanschauung differenti. Da tempo attratta dal cinema, con il suo primo lungometraggio, Donne senza uomini, Shirin Neshat si è aggiudicata il Leone d'argento all'ultimo Festival del Cinema di Venezia. Con un linguaggio enigmatico e con lo stile curatissimo e perfetto che contraddistinguono il suo lavoro, nel film l'artista racconta una serie di storie individuali il cui elemento accomunante è avere un punto di riferimento in un magnifico giardino di orchidee: luogo interiore, spazio a parte in cui sfuggire alla quotidianità banale o brutale. Il video è stato presentato in questi giorni nel corso di una sorta di tournée tra le principali città italiane: Milano, Roma, Bologna, Firenze. Il tour è stato l'occasione per chiedere con forza che il Paese faccia pressione sul governo iraniano per la liberazione del regista Panahi, di recente arrestato insieme alla sua famiglia. "Il ruolo di noi artisti iraniani all'estero, dunque, è di mantenere viva l'attenzione su quanto succede nel nostro Paese" dice Neshat.

Quando e come ha deciso di passare dal video al cinema? Pensa di continuare con quest'ultimo? Quali cambiamenti porta per chi era solito lavorare, come lei, nel campo delle arti visive?
Come artista ho sempre avuto un approccio relativamente nomade ai linguaggi specifici: come sa ho iniziato con la fotografia, poi sono passata al video e ora faccio cinema. Mi è sempre piaciuta l'idea di ripartire da zero, è un modo di mettermi alla prova imparando un nuovo linguaggio. Perciò questa evoluzione dalle immagini ferme a quelle in movimento mi è venuta naturale, e in qualche modo rispecchia la mia personalità che tende a rifiutare con forza la ripetizione, una specie di spericolatezza nel varcare i confini. Ma credo anche che più realizzavo video, più apprezzavo il cinema e il concetto di narrazione. Il cinema per me rappresenta la forma d'arte più completa, perché integra fotografia, pittura, coreografia, musica, performance e naturalmente la narrativa e altro ancora. In termini professionali – l'arte nei confronti del cinema – fare arte è un'esperienza di grande solitudine, mentre il cinema è un processo indubbiamente molto più comunitario, che obbliga gli artisti a uscire dal loro studio per andare nel mondo, collaborare con un gruppo di lavoro, scoprire nuove culture e nuove persone che altrimenti non avrebbero incontrato. E poi c'è una parte di me che è profondamente attratta dal pubblico del cinema, nel senso che trovo che il cinema sia in senso generale più democratico e più vicino al pubblico generale. Sono cresciuta nella relativa frustrazione dovuta all'idea che gli artisti creano beni preziosi destinati a essere visti solo nelle gallerie e nei musei, a essere collezionati da pochi individui e dai musei. E, soprattutto, che possono per lo più essere apprezzati dal pubblico del mondo dell'arte, istruito ed esclusivo, dotato di buona competenza in fatto di storia dell'arte. Da questo punto di vista la cultura cinematografica appare molto più popolarmente radicata, nel senso è accessibile a tutti senza bisogno di una preesistente competenza sulla storia del cinema.

Quale sarà il suo prossimo film?
The Palace of Dreams, dal romanzo Il palazzo dei sogni di Ismail Kadaré.

Il video di solito implica per lo spettatore una pratica spaziale attiva. In particolare i suoi video, con la giustapposizione degli schermi e la molteplicità delle proiezioni, erano esperienze profondamente fisiche. Le modalità della fruizione cambiano nel passaggio dal video al cinema? In caso affermativo, come?
Ha assolutamente ragione, in particolare le installazioni video come le concepivo in passato avevano un carattere profondamente spaziale e scultoreo. Per cui il pubblico nei video trovava un'esperienza fisica, perché si immergeva nell'immagine. Con il film a soggetto, che pure resta molto visivo, sperimento uno stile narrativo e soprattutto imparo a lavorare con i personaggi in un modo che non avevo mai analizzato appieno nei video precedenti. In generale, facendo una distinzione tra il linguaggio dell'arte e quello del cinema, direi che l'arte è creazione di idee e il cinema è narrativa. E come artisti non possiamo semplicemente dare per scontata la pura importazione delle idee dei nostri video nel cinema, senza rispettare e comprendere le regole del linguaggio filmico. Per creare un film che dura più di 90 minuti bisogna avere un chiaro sviluppo narrativo per tenere seduti gli spettatori, mentre nelle gallerie e nei musei i visitatori entrano ed escono dalle sale come gli pare.

Lei appare profondamente legata alle sue origini iraniane, le sue opere sono sempre molto collegate con la situazione concreta e attuale dell'Iran. Ma lei vive negli Stati Uniti ormai da molto, ed è una cittadina del mondo. Lei vive in una specie di situazione culturale ubiquitaria. Credo che questa identità culturale della diaspora abbia un influsso sul suo punto di vista…
Certamente mi sento emotivamente, psicologicamente, culturalmente e politicamente divisa tra Oriente e Occidente, e anche la mia arte rispecchia questa dicotomia. La mia ossessione per il mio paese, l'Iran, dipende da un fatto personale: ho un rapporto irrisolto con la mia patria. Ho vissuto lontano dalla famiglia e dal mio paese senza scegliere. E da quando avevo diciassette anni mi sono sentita abbandonata in Occidente senza alcun contatto con la mia famiglia. Perciò provo un certo qual risentimento, una rabbia nei confronti dei sistemi politici e dei governi che hanno determinato il corso della mia vita. La mia arte è divenuta in certo qual modo uno strumento, un modo per affrontare il mio personale dilemma; ma poi mi sono ritrovata in un dialogo più vasto sulle realtà sociali, politiche e culturali del mio paese e del mondo in generale.

Pensando alla situazione dell'Iran lei crede che oggi le sue opere abbiano la possibilità di essere viste dal pubblico? E perché?
Assolutamente no. Credo che fino a quando questo governo sarà al potere non sarà possibile esporre le opere di un'artista come me.

Quale tipo di impegno ci si deve aspettare da un artista, secondo lei?
Il massimo che gli artisti iraniani possano dare, per quanto oppressivo sia l'attuale clima culturale iraniano. Il loro ruolo è importante, nel paese. Artisti, filmmaker, scrittori, musicisti e chiunque sia creativo tende a farsi portavoce del popolo iraniano, cronista delle difficoltà della vita sotto il regime attuale sia nei confronti degli iraniani (in patria e all'estero) sia in quelli degli occidentali. Il carattere sovversivo dell'arte e degli artisti perciò è divenuto una grande minaccia per il regime islamico, dato che il governo riconosce la loro capacità di provocare il pubblico e impone sistematicamente la censura, la repressione e spesso la detenzione.

Lei ha soggiornato in Italia per qualche settimana. Ha probabilmente sentito parlare delle strane cose che accadono qui riguardo alle donne, come i paparazzi, il ricatto negli ambienti politici e vallettopoli. Talvolta mi chiedo con sconforto se si tratta delle conseguenze di una regressione oppure di un progresso (per lo meno le donne parlano ad alta voce!). Che cosa ne pensa? E ha un'impressione o un'opinione sulla situazione italiana?
Devo ammettere che non conosco così bene la situazione delle donne in Italia, ma ho sentito che perfino alcune donne hanno aderito all'idea che la donna rimanga un oggetto di desiderio sessuale. È come se si sradicasse tutto il lavoro che il movimento femminista ha fatto per noi, e certamente si tratta di una regressione estremamente preoccupante.

L'intervista di Gabi Scardi a Shirin Neshat è stata raccolta il 12 marzo 2010 in occasione dell'incontro con il pubblico e dell'anteprima del film al cinema Odeon di Firenze. L'evento, coordinato da Silvia Lucchesi, è stato organizzato da Lo schermo dell'arte e FST - Mediateca Toscana Film Commission.
Shirin Neshat, Donne senza uomini
Shirin Neshat, Donne senza uomini
Shirin Neshat, Donne senza uomini
Shirin Neshat, Donne senza uomini
Shirin Neshat, Donne senza uomini
Shirin Neshat, Donne senza uomini
Shirin Neshat, Donne senza uomini
Shirin Neshat, Donne senza uomini
Shirin Neshat, Donne senza uomini
Shirin Neshat, Donne senza uomini
Shirin Neshat, Donne senza uomini
Shirin Neshat, Donne senza uomini
Shirin Neshat, Donne senza uomini
Shirin Neshat, Donne senza uomini

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