Un museo strepitoso può fungere da occasione di riscatto per la città? Testo di Lea Vergine. Fotografia di Peppe Avallone. A cura di Loredana Mascheroni.
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Combattiamo l’anti-città
Lea Vergine
Una città dove puoi entrare nel Museo Archeologico e vedere, in anteprima nazionale i reperti della dinastia cinese Tang prima dell’anno 1000, nella Sala della Meridiana dove negli ultimi anni sono state ospitate vaste personali di artisti che vanno da Richard Serra a Nino Longobardi; dove puoi salire al Museo di Capodimonte per vedere l’ultimo Mimmo Paladino, quello di Don Quijote; dove resta una straordinaria esperienza transitare per gli ambulacri del Castel dell’Ovo a riguardare il periodo informale di Carmine Di Ruggiero o risalire, da un’altra parte, a Castel Sant’Elmo per una mostra su Domenico Morelli; dove, in via dei Mille, si può andare al settecentesco Palazzo Roccella, detto oggi PAN (Palazzo delle Arti Napoli), in cui è illustrata, sia pure discutibilmente, l’arte contemporanea attraverso l’attività delle gallerie locali (quasi duecento opere); dove, passando per piazza Plebiscito in cui è alloggiata l’installazione annuale, si possono toccare le tante stazioni della metropolitana nelle quali artisti nativi, europei e americani sono intervenuti determinando un’enorme museo all’aperto.
Ebbene, oggi tale città esiste; e, esistendo, costituisce un unicum in Europa. Se poi si aggiungono gli spazi della neoclassica Villa Pignatelli, quelli della Palazzina in Villa, i saloni di Palazzo Reale e quelli dell’aragonese Maschio Angioino arriviamo a dieci spazi per rassegne d’arte contemporanea. Un altro se ne aggiunge, a Palazzo Donna Regina: si chiama MADRE. Che fa Napoli? Ciclicamente rinasce? “... la storia vi nasce lentamente. Soprattutto, è una storia esotica, un’invenzione che sa di Omero, di poemi ciclici, di innumeri frammenti di leggende, favole, conti di mercanti, liti di taverne, risse, coltelli lucidi e rapidi, adulteri e nostalgie... qualcuno morì a Napoli prima che Napoli esistesse. Poi, tra i grandi silenzi, gli spazi deserti, ci fu un parlottare, un chiacchierio di sirene. Partenope è una sirena, è una città, è greca, è morta per amore, è una Dea, è un luogo, è una strada, è una taverna, è miracolosa, venerarla bisogna, qui è Partenope. Partenope è in ogni luogo, di soppiatto scaturisce dal mare, qui dove è nome di ninfa sarà sacra la ninfa nei secoli; la città non morrà, la ninfa città non morrà”. Così, Giorgio Manganelli (negli scritti radunati in Salons, edizioni Adelphi, Milano 2000).
Il Madre è aperto dal giugno scorso in un edificio di via Settembrini, nel quartiere San Lorenzo, poco distante cioè dal Duomo e dal Monastero di Santa Maria di Donna Regina. È stato acquistato dalla Regione, ricorrendo ai fondi europei, nel marzo del 2004, insieme con il progetto di Álvaro Siza. Quarantadue milioni di euro è stato il costo di tutta l’operazione per ottenere circa 8.000 metri quadri di museo. Un cortile interno di circa 500 metri quadri per le grandi installazioni; un altro, di poco più piccolo, sarà occupato dai consueti servizi per i musei. Ci sarà un enorme terrazzo adoperabile: gli spazi espositivi interni si articolano su quattro livelli. Molte sciocchezze si sono dette in questi mesi sulla provenienza delle opere esposte e sulle esclusioni di artisti napoletani. Di questi ce ne sono ben sei – da Carlo Alfano a Francesco Clemente a Gianni Pisani – mentre al primo piano Kapoor, Kounellis, Richard Long, Rebecca Horn e tutti coloro invitati, negli ultimi dieci anni, a scrivere la storia artistica di piazza Plebiscito sono rappresentati da opere acquistate dal museo (e alcune anche regalate).
La Regione Campania ha anche acquistato (per un totale di tre milioni e mezzo di euro lordi) un notevole numero di opere che rappresentano gli ultimi cinquant’anni di ricerca artistica, da Lucio Fontana a Richard Hamilton, da Yves Klein ad Anselm Kiefer, da Piero Manzoni a Mario Merz e Giuseppe Penone. Più di sessanta artisti costituiscono il percorso espositivo del secondo piano per un totale di circa cento opere. Ci sono anche opere prestate, opere in comodato a lunghissimo tempo e provengono da collezioni napoletane, italiane, tedesche e americane. Della collezione Sonnabend ce ne sono ventotto e il prestito è stato fatto per i prossimi trentacinque anni: questo anche perché l’edificio-museo risponde alle esigenze più sofisticate di manutenzione, così come non ce n’è in Italia. Dal 10 dicembre 2005 il museo è aperto tutti i giorni.
Ma il vecchio adagio che ha sempre regolato il vivere napoletano, quello che raccomanda “niente si fa ma niente dev’essere fatto” (mi fu raccontato da Raffaello Causa nel lontanissimo 1960) resta, in un certo senso, ancora vincente e serve a spiegare – con un filo di amarezza invero – il coro di lagnanze cittadine e le furie di un manipolo di galleristi che operano nella e dalla città. Ma cosa si può contestare a un museo strepitoso per volontà del suo direttore Edoardo Cicelyn e, soprattutto, del governatore Antonio Bassolino? Cicelyn è accusato di tirannia. I galleristi – mi si dice – vorrebbero che il direttore li facesse accomodare al tavolo delle decisioni per condividere le scelte di qualunque cosa (la merenda ripartita). L’altra obiezione riguarda il curriculum di Cicelyn che, viene detto, non è né uno storico né un critico d’arte e nemmeno vanta pubblicazioni. Signori, ma che gioco è? Cosa si dovrebbe allora obiettare per le direzioni del Museo di Rivoli o della Galleria d’Arte Moderna di Roma, tanto per fare qualche esempio?
Ci si attacca anche al problema di sempre, il delinquere nelle periferie e la microcriminalità diffusa. “In Italia la periferia, il degrado, l’assenza di servizi, sono un arcipelago e non una cintura – ha scritto Stefano Boeri su Il Sole 24 Ore –. Arrivano ovunque: negli edifici sfitti del centro, nei parchi, nelle fabbriche dismesse. Siete mai stati a Napoli nei quartieri Spagnoli o nel rione Sanità?... Periferia oggi nelle città europee è una condizione mobile, un’etichetta per paesaggi molteplici. La conquista del centro, il quarto stato in marcia verso i quartieri borghesi, lasciamolo agli incubi di chi crede ancora al mito di un Centro antico e ricco contrapposto ad una Periferia recente ed abbandonata a se stessa. Lasciamolo a chi pensa che la storia corrisponda perfettamente alla geografia... a chi vede l’insurrezione covare nelle periferie italiane bisognerebbe poi spiegare che il pericolo per la sicurezza della vita civile non viene dalle periferie, dai margini esterni delle città. No, la verità è che nelle città europee sta crescendo una vera e propria Anti-città. Migliaia di persone, giovani, coppie, anziani, tagliati fuori dalla vita culturale, dagli scambi economici, dalle relazioni istituzionali... L’insurrezione parigina ha molto in comune con la furia che per mesi è scorsa nelle vene di Scampia o della Sanità... l’Anti-città scopre a sue spese che la mobilità sociale, come quella residenziale, è un miraggio... gli anticorpi contro la diffusione dell’Anti-città non stanno in una generica terapia ‘antiperiferie’. Sono invece politici. Politiche sono le leggi che disciplinano il welfare, gli incentivi alle famiglie, la redistribuzione dei redditi. Politica è la sfida di un Governo delle città europee che – da Parigi a Napoli – sembra aver perso la bussola”.
Ma perché un popolo che ha avuto un’eccelsa tradizione ma che ha anche patito più di cento anni di silenzio sul piano internazionale non festeggia una situazione simile anziché continuare a lamentarsi di non essere sufficientemente assistito?
