I due artisti francesi raccontano a Hans Ulrich Obrist il lavoro con Krawczyk e le loro visioni. E la passione per Kantor. A cura di Loredana Mascheroni

Hans Ulrich Obrist La vostra collaborazione dura da molto tempo. È abbastanza consueto vedere due professionisti differenti per origine e per pratica associarsi per condurre un lavoro in comune, ma voi rappresentate un genere di associazione più originale, dato che in primo luogo sono quasi dieci anni che lavorate insieme e in secondo luogo credo che si possa dire che questo lavoro comune ha assunto un significato più ampio rispetto a quello di una semplice collaborazione. Mi sbaglio?
Christian Boltanski Credo che si possa dire che anche se ognuno può continuare a lavorare per conto proprio, quello che facciamo in tre (con Franck Krawczyk che è musicista), assomiglia comunque al lavoro di una sola persona. Non è una situazione in cui un certo pittore si mette a realizzare delle scene per un regista, non ci troviamo nel caso di un’associazione contingente e puntuale. Noi andiamo alla ricerca di qualcosa…
HUO In questi progetti si può individuare il contributo di ognuno oppure no?
CB Il lavoro che facciamo insieme è davvero un lavoro di ping-pong e di continui ‘rimbalzi’. Cioè uno dice una cosa, l’altro risponde: “No, sarebbe meglio fare così” e il terzo replica. Quindi ci sono sempre dei rimaneggiamenti che hanno origini differenti, tanto che è effettivamente molto difficile alla fine attribuire questo o quell’aspetto a uno di noi. Per Franck la cosa è un po’ diversa perché lui scrive la musica, ma allo stesso tempo noi abbiamo un grande influsso su di lui. Se vuole metterci un pianoforte, come è capitato di recente, magari noi facciamo delle obiezioni: “No, non un piano, è un oggetto troppo fiacco, bisogna trovare un’altra soluzione, ma in ogni caso non un pianoforte a coda! Non funziona…”. Quindi con queste critiche abbiamo un influsso su ciò che lui può produrre. E poi lui ha una qualità notevole: è elastico, inventa sempre con gran facilità. Insomma, è capace di ‘rimbalzare’, e se noi non vogliamo un pianoforte succede che può sostituirlo con un carillon e ritoccare il pezzo in funzione di questo elemento. Quindi, con una modalità inconsueta noi interveniamo sulla sua musica anche se lui è l’unico che la scrive, ovviamente.
HUO Franck è un compositore, Christian è un pittore, ma tu, Jean, come di definisci? Sei un “architetto della luce”, un “tecnico delle luci”? Come definiresti quello che fai?
Jean Kalman È semplice. Quando lavoro a una produzione teatrale o operistica l’espressione più corrente per indicare la mia professione è quella inglese di lighting designer. In italiano non c’è un vero e proprio equivalente. Si dice: “Faccio le luci”… HUO Un punto in comune con Christian è la vostra ammirazione per Kantor…
CB In effetti è l’uomo di teatro che preferisco al mondo. Oltre che l’artista che preferisco al mondo. L’ho conosciuto un po’ ma non ho lavorato con lui… Jean ci ha lavorato un po’ più di me…
HUO Che cosa vi interessa di lui?
CB È sublime. Penso che sia la carica e la povertà dei mezzi che usava. Il fatto che fosse fuori dal tempo, che non fosse segnato da nessun tempo. Il suo lavoro era totalmente emotivo, pareva fatto quasi di nulla anche se c’era dietro un gran lavoro. Kantor è il contrario di Bob Wilson. Sono entrambi grandi registi, certamente, ma Bob Wilson è la perfezione che si vede, mentre Kantor è la perfezione che non si vede. Avevi l’impressione che avesse raccattato tre vecchi barboni e che non li avesse neanche fatti provare…
JK Con Kantor si verificava una cosa straordinaria: era un lavoro che si faceva continuamente in scena. Ci faceva osservare il suo lavoro scenico e ci faceva entrare dentro per il solo fatto che eravamo lì. Kantor era sempre in scena, si avvicinava all’attore e gli spostava una mano, osservava il risultato. Ed è evidente che quando lo faceva lo spettatore toccava la mano con lui, e questo faceva sì che si verificasse una specie di penetrazione continua, una circolazione dello sguardo per il fatto che lui era lì. Qualche volta si annoiava, o diceva di aumentare il volume della musica… Tutte queste cose facevano sì che si fosse realmente partecipi anche se si stava seduti in platea senza far altro che osservare…
CB La grande differenza tra Kantor e gli altri uomini di teatro era che lui lavorava un po’ come un pittore. Oltre al fatto, naturalmente, che era anche pittore. Ha praticamente fatto un’opera sola, sempre la stessa, e al tempo stesso era veramente arte totale. Anche la musica, se non era lui a farla, era comunque lui a trovarla, tutte le scenografie erano sue, non è il genere di regista che prende un testo e lo adatta. Lui faceva veramente il testo, faceva la storia…
HUO Come fate nascere i vostri progetti?
CB Il più delle volte partiamo da un edificio e cerchiamo di utilizzarlo tutto, da differenti punti di vista. È un percorso circolare, non ci sono un inizio e una fine in senso stretto. Puoi starci un quarto d’ora oppure fermarti per due ore, puoi anche passeggiare oppure sederti. Quando si è in un teatro, di solito, c’è una cosa sola, un solo evento. Mentre nel nostro progetto ci sono più realtà in parallelo, le cose si presentano più in termini di percorso con eventi simultanei che accadono in spazi che possono essere anche profondamente contrapposti. Qualche volta questi luoghi si incontrano e qualche volta non si incontrano per nulla. Si vuole istituire una possibilità di erranza…
JK In generale, lo spettacolo cerca di produrre una temporalità definita. Parte centrale, inizio e finale si sviluppano secondo una prospettiva precisa. Anche se si sa che gli spettatori sono collocati in luoghi differenti della sala, comunque ognuno ha il suo posto. Ciascuno ha quindi una definizione del tempo e dello spazio che costruisce una cornice attraverso la quale si presenta qualcosa. Io credo che fin dall’inizio abbiamo sempre cercato di uscire dai limiti imposti da questa cornice. Abbiamo cercato di istituire una temporalità indefinita, da cui la passeggiata, e anche di uscire dalla cornice spaziale imposta definendo la prospettiva attraverso la quale lo spettacolo viene percepito. Nel momento in cui la temporalità e la prospettiva esplodono, la cornice svanisce. Ma ciò non toglie che ci sia uno svolgimento, intendo uno svolgimento controllato. E quel che importa è che questo sviluppo può essere percepito secondo momenti diversi e secondo prospettive diverse.
HUO Insomma si può dire che cercate di spezzare la linearità dello sviluppo realizzando una molteplicità di scene. Ma che cosa avviene in particolare su queste scene differenti?
CB Ciò che tentiamo di fare è un lavoro che si collochi a metà strada tra lo spettacolo musicale e l’installazione o la pittura, cioè di quel che avviene quando si visita un museo tradizionale. Si tratta di far lavorare un’opposizione ben nota tra le due sfere: tra la musica, arte del tempo, e la pittura, arte dello spazio. Si gioca così sulle proprietà delle arti spaziali, come l’effetto sorpresa di quando si entra nella sala di un museo e si vede un quadro enorme e poi una cosa più piccola… E poi si gioca analogamente sulle proprietà delle arti temporali perché, come diceva Jean, anche se il tempo non è definito, la musica ha uno svolgimento…
JK Cerchiamo sempre di controllare lo svolgimento temporale, che non è aleatorio: non ci sono eventi dispersi che si incontrano oppure non si incontrano, a caso. Gli eventi sono pensati in una continuità ben precisa, che però può essere affrontata da qualunque punto del suo svolgimento, è qui che si colloca la possibilità di dissolvere la cornice. È evidente per esempio che una frase precisa, per esempio: “La marchesa sta uscendo” può essere presa nella parte centrale “… chesa sta uscendo la mar…”, e che in questo caso accade una cosa diversa… Per schematizzare, molto grossolanamente, è un po’ così che succede. In ogni momento si può uscire da questo svolgimento e rientrarci in un altro punto. Questo genera una complessità in linea di principio infinita, ma non per questo si tratta di una nebulosa indefinita di eventi.
HUO Franck è il terzo uomo… Come l’avete incontrato?
CB È stata Joséphine Markovits del Festival d’Automne che l’ha fatto conoscere a Jean. Aveva lavorato parecchie volte al Festival d’Automne… Franck era in un periodo della vita in cui cercava di liberarsi dal giro della musica contemporanea tradizionale, se posso esprimermi così. Era più interessato ad altre cose e soprattutto alla ripresa e alla riscrittura di musica di altri compositori, attività che costituisce del resto un’antica tradizione musicale. Ma nel suo caso, l’idea è rielaborare la musica in modo da arrivare al limite in cui l’opera riscritta è distrutta. Per esempio abbiamo lavorato due volte su Mahler: lo si riconosce ancora, ma Franck prende trenta secondi di Mahler e li fa diventare tre ore! Insomma, gli è venuta voglia di tirarsi un po’ fuori dalla musica elettroacustica…
JK Da parte mia, ho l’impressione che stesse ricostruendo una scrittura musicale.
CB È una sensazione comune. Da un certo momento in poi non si sopporta più l’avanguardia istituzionalizzata. Ed è ciò che secondo me è successo a Franck: gli è venuta voglia di mollare tutto e di trovare un altro modo di comporre e un altro modo di lavorare. Per Jean credo che sia successa la stessa cosa: sei diventato un grande designer, come si suol dire, e ti è venuta voglia di uscirne. Io ero un po’ stufo di mostre nel senso classico della parola e cercavo qualcosa di diverso… Insomma noi tre abbiamo trovato un punto comune malgrado la differenza delle nostre pratiche specifiche. Quest’altro modo è di natura ibrida e riguarda vari settori. È musica – dato che Franck fa un vero lavoro di composizione – è un’installazione, ma è anche teatro… Tre persone che provengono da orizzonti differenti, tre persone che non stanno più a loro agio nelle rispettive discipline e che quindi cercano di inventare un forma ibrida. Credo che più o meno sia così, no?
JK Sì. Ma io aggiungerei che si tratta anche di un’impresa di destabilizzazione triangolare. Siamo un antisgabello: con due gambe si finisce per terra, con quattro gambe ce n’è sempre una troppo corta, ma tre è il numero giusto di gambe per ottenere l’equilibrio. Noi tre facciamo il contrario, abbiamo un’impresa di mutua destabilizzazione…
HUO E voi due come vi siete conosciuti?
CB Io avevo conosciuto Jean e lui mi aveva fatto invitare all’Opéra Comique, che in quel momento aveva un programma di mostre d’arte. Il principio del programma dell’Opéra Comique, che purtroppo si è interrotto, era molto interessante: far lavorare un artista visivo sulla musica.
HUO E tu eri l’organizzatore?
JK No, assolutamente. Ma sono stato io a mettere in contatto Christian con questo progetto. Per altro, è in seguito a questo episodio che è nata con Christian l’idea di fare un Winterreise.
CB Poi abbiamo ripreso il lavoro sul Winterreise a New York, alla Brooklyn Academy of Music. È lì che abbiamo cominciato a inventare quel che avevamo voglia di fare, anche se era più classico, più lineare, dato che era dentro un teatro. Credo che sia stata un’esperienza determinante. Poi abbiamo lavorato a Les Belles Endormies al Festival d’Automne.
HUO Ho visto anche un’installazione enorme a Lisbona, un omaggio a Heiner Müller.
CB Sì, e poi abbiamo fatto una cosa a Dresda, a Hellerau, in quel posto legato all’utopia. Era una specie di percorso. Non c’era musica, ma era una grande installazione, un percorso in quel luogo vastissimo, sovraccarico e in rovina. E poi abbiamo fatto Berlino.
HUO Con Kabakow.
CB Sì. Anche quello era abbastanza smisurato. Il posto era bellissimo: un ex sanatorio poi trasformato in ospedale militare sovietico. C’erano dei padiglioni dispersi in un parco immenso. Lo spettatore passeggiava totalmente libero, entrava nel padiglione che sceglieva e succedevano delle cose con della musica registrata…
JK Il nostro riferimento di base era la tetralogia wagneriana. Se si trovava il percorso giusto la si ascoltava dall’inizio alla fine. Ma il buffo è che il passaparola ha agito in modo che, se il primo giorno avevamo avuto il consueto pubblico da festival, un pubblico di persone che seguivano le manifestazioni culturali, il giorno dopo, credo fosse domenica, tutta Berlino è venuta con bambini e wurstel… Era straordinario [risate].
HUO Ma è stato con O Mensch al Point P di Parigi che i progetti hanno iniziato a prendere un’altra piega, più complessa e avanzata, nella ricerca del ‘trialogo’ o dello sgabello a tre gambe?
JK Il Point P è stata la nostra terza collaborazione con Franck. Avevamo iniziato a lavorare insieme a Digione per questa pièce che si intitolava Bienvenue, che era abbastanza bella, molto intensa, in cui ci esploravamo a vicenda, sperimentavamo le possibilità di stare insieme. Ma in realtà è con il Point P che il lavoro è arrivato a una vera dimensione di complessità. Ma era ancora solo un inizio…
HUO Pensate lo si possa definire come qualcosa di prossimo al Gesamtkunstwerk? Non c’è qualcosa dell’“opera d’arte totale” in questa associazione di installazione, luce e suono?
JK Mi sbaglierò ma mi pare che la connotazione del Gesamtkunstwerk sia quella di un’attività che mira a un’opera chiusa, finita, cioè una cosa che, anche se mobilita più linguaggi espressivi, lo fa attraverso una temporalità definita. Mira a una totalità chiusa. Noi invece miriamo a una totalità aperta, vogliamo far esplodere la cornice e far entrare gli spettatori nell’opera.
HUO Qual è il ruolo dello spettatore? Sottoscrivete la formula di Duchamp secondo cui è lo spettatore a fare almeno la metà dell’opera d’arte?
CB Vogliamo fare in modo che lo spettatore divenga attore. Il suo spostamento fisico all’interno dello spettacolo è parte dello spettacolo: è il suo spostamento aleatorio che ne fa esistere una parte essenziale. Non ci piace avere troppi spettatori ma non ci piace nemmeno non averne del tutto. Se dovessimo accostare questo aspetto al mondo dell’arte bisognerebbe probabilmente cercare nei dintorni delle esperienze di McCarthy e Mike Kelley. Anche se hanno un vocabolario completamente diverso e un universo del tutto differente. In realtà, credo che il punto essenziale, a proposito dello spettatore, sia che in fondo vogliamo che si trasformi in un partecipante, di quelli che partecipa perché “sta dentro l’opera”, non davanti. Come avviene per la maggior parte del tempo, quando uno spettatore visita una mostra. Mettercelo dentro vuol dire spingere all’estremo quel che viene chiamato ‘installazione’. Per esempio, una delle cose che interessano molto Jean e me è il cambiamento dello spazio. Passare in un corridoio stretto, scendere tre scalini… Insomma, cose molto corporee, fisiche. Simile a quel che Bruce Naumann ha sperimentato vent’anni fa, per quanto in un modo completamente differente.
HUO Quindi un’esperienza che coinvolge l’intero corpo…
CB Proprio così. Perché quando vai a teatro non fai propriamente un’esperienza fisica. Perché guardi e le cose si svolgono a distanza. Bisogna che ti venga da tossire perché c’è fumo, bisogna che tiri aria, che faccia freddo, che ti spaventi, che ti senta a disagio in un ambiente molto opprimente, o al contrario ti senta liberato sbucando in uno spazio grandissimo.
HUO Ora che sono state realizzate tante cose, vedete dei momenti di collaborazione irrealizzata nel vostro lavoro insieme? Utopie troppo grandi per essere realizzate? Progetti troppo cari? O anche – perché no – progetti censurati?
JK Intanto, per tornare alla tua domanda sulla nostra collaborazione, un elemento essenziale è la flânerie. Tutto il ritmo di questi progetti, per esempio il Point P, oppure il lavoro realizzato a Digione, è segnato da questo spirito di flânerie. La gente passeggia secondo i suoi ritmi, cioè si attarda, si siede, non fa niente di speciale, nessuno se ne occupa e non è mai costretta a fare nulla. Ci rifiutiamo di dire loro: “Guardate qui, è interessante!”, “Dentro una stanza c’è una musica che suona, andate a guardar dentro…” e così via. Noi lavoriamo in quel modo. Dato che passiamo senza scaldarci troppo da un progetto all’altro, non possiamo avere un “progetto di progetto”…
[ridono]
CB Sì. Per esempio se ci capitasse di dover fare qualcosa qui, all’Hotel Lutetia, avverrebbe di sicuro in questo modo: ce ne staremmo seduti qui con un bicchiere davanti, ci guarderemmo intorno e finiremmo col dirci che qui faremo qualcosa. È a partire da questa situazione che nascerebbe la nostra voglia di fare qualcosa qui.
JK Non diamo prova di grandissimo attivismo riguardo ai nostri progetti… Fermo restando questo, credo che ci sia a Parigi un progetto che varrebbe la pena di realizzare: il grande concerto di campane che volevamo fare per lo Châtelet.
CB Sì, perché è tremendamente complicato convincere tutti i parroci… L’idea è più o meno questa: intorno allo Châtelet ci sono quattro o cinque chiese, Notre Dame non è lontana. Bisognerebbe che a un certo momento tutte queste chiese si mettessero a suonare insieme e facessero una specie di concerto. Scriveremmo qualcosa di specifico naturalmente. Allora tu staresti sulla balconata esterna del teatro e ascolteresti quattro o cinque chiese…
JK Anche di più, se è per questo! Idealmente bisognerebbe che fossero tutte le grandi chiese di Parigi… Ma ci siamo resi conto che se era possibile in una città piccola con aree pedonali, era molto più problematico a Parigi a causa del rumore. Ho paura che sia completamente utopico…

Christian Boltanski
, nato a Parigi nel 1944, vive e lavora a Malakoff. Autodidatta, comincia a dipingere nel 1958 ma è del 1967 la svolta artistica che lo porta a realizzare quei dossier che diventeranno una delle sue tematiche principali: biografie che mescolano oggetti non sempre suoi e foto spesso rielaborate. Tutte le sue opere sono lavori sul ricordo, dell’infanzia e dei morti, sulla storia personale e su quella della collettività.

Jean Kalman, nato a Parigi, dal 1979 lavora come lighting designer per il teatro e l’opera in Francia, Gran Bretagna, Italia, Germania, Olanda, Stati Uniti e Giappone. Nel 1991 ha ricevuto il Lawrence Olivier Award come miglior lighting designer. Ha collaborato alla realizzazione di installazioni con, tra gli altri, il compositore Heiner Goebbels, gli artisti Christian Boltanski (Winterreise, Les Belles endormies), Karel Appel e Georg Baselitz.