Il pubblico del Salone, ma anche famiglie, appassionati d’arte e fan dell’elettronica. Giovedì sera la folla inedita ed eterogenea – si parla di 40mila persone – che ha varcato la soglia dello stadio di San Siro non lo ha fatto, come di consueto, per assistere a una partita o a un concerto rock. Si è messa in moto, invece, per partecipare all’evento organizzato da Domus – in collaborazione con Inter e Milan e la rivista Rolling Stone – la prima notte bianca all’interno di un’arena calcistica, una delle più grandi d’Europa. Per gran parte di loro, tanti i giovani e giovanissimi, era curiosamente la prima volta nel tempio del calcio milanese.
Quello di Domus Circular è stato un vero e proprio esperimento. Il tentativo, da verificare, era provare a trasformare un grande catino di cemento dedicato al rito del calcio in una piazza urbana. Una piazza dove la gente appunto ‘circola’, si incontra, se vuole assiste a un concerto o, se preferisce, cerca qualcos’altro – un’installazione, una performance, una discussione – muovendosi per esplorare uno spazio vicino, ma magari sconosciuto.
A solo 48 ore dai disordini che hanno fatto sospendere l’euroderby Inter-Milan e sono costati all’Inter una pesante squalifica, San Siro aveva cambiato volto. Da arena sportiva a spazio pubblico. Percorribile, in modo libero e imprevedibile fin nei meandri più inaccessibili: dalle curve agli spogliatoi, dalle tribune vip al “terzo anello” che, da 100 metri di altezza, offre una spettacolare vista in picchiata sul campo da gioco e apre un’inaspettata finestra sullo skyline cittadino.
È successo che mentre nell’area “Domus Picnic”, allestita dal gruppo A12, ci si chiedeva quanto fosse lontana l’ora di eliminare le barriere dello stadio, poco distante l’architetto utopico Yona Friedman (classe 1929) aveva preparato una singolare installazione che invitava la gente a realizzare una “ville spatiale”, un’architettura cioè che comprendesse le continue trasformazioni proprie della mobilità sociale. A prevalere è stato però l’istinto ‘distruttivo’: i suoi oggetti, affissi anche all’esterno della struttura, sono stati gettati a terra e, in breve tempo, hanno dato il via a un’imprevista battaglia a colpi di polistirolo. Nello spazio raccolto della saletta executive, Alessandro Mendini, Piero Gilardi, Lea Vergine, Stefano Casciani e Hans Ulrich Obrist procedevano all’omaggio al critico d’arte di Domus per antonomasia, Pierre Restany. Allo stesso tempo, dal bar parterre Enzo Mari ingaggiava uno stimolante botta e risposta con i visitatori.
La serata è proseguita con i percussionisti del musicista newyorkese Arto Lindsay che, dalla tribuna centrale, hanno suonato per oltre un’ora, mentre a tratti e all’improvviso alcuni performer (i Kinkaleri) invadevano il campo da gioco urlando a squarciagola e creando divertito sconcerto tra gli spettatori. Oltre a un prevedibile desiderio di emulazione, subito sopito dall’intervento degli uomini della sicurezza. Elisabetta Benassi ha invece fatto sua la stanza, di solito dedicata ai raccattapalle, con il video “Tutti morimmo a stento”, mentre Marcello Maloberti faceva passare delle sedie/opere d’arte fissate sulle spalle dei suoi aiutanti e Luca Vitone dirigeva un coro ligure al secondo anello. Non sono mancate le ‘proteste’ estemporanee come quella degli studenti dello IUAV di Venezia. Poiché nessuno si spingeva fino alla “rampa 16” per vedere i loro “progetti non realizzati”, hanno pensato di richiamare l’attenzione della folla appendendo striscioni dagli spalti. Intorno alla mezzanotte, infine, il cambio della guardia: l’inizio della TDK Marathon nel garage sotterraneo dello stadio ha alternato la musica all’arte.
La ‘babele’ di eventi culturali ha avuto un benefico effetto dissacrante sulla cattedrale cittadina del calcio che per una notte è stata abbandonata dai suoi fedeli (i tifosi) e vissuta in modo del tutto personale dalla moltitudine più improbabile che abbia mai messo piede in un’arena sportiva. Al punto che il pubblico stesso, la folla che circolava senza sosta ai diversi livelli, lamentandosi a volte di non trovare le opere, è diventata parte dell’installazione, da osservare e della quale fare parte.
Gli organizzatori, del resto, non volevano limitarsi a dare vita a un ciclo di concerti e di spettacoli, né un semplice ‘evento’. La sfida era invece provare a sfuggire alla “logica dell’evento” a tutti i costi. La cosa importante non era competere con il rito calcistico o con quello del grande concerto quanto provare a proporre un uso diverso di un grande spazio dal valore simbolico straordinario e dalla flessibilità all’uso potenzialmente tutta da interpretare. Si può dunque dire che l’esperimento abbia dato i suoi frutti. Dimostrando che uno stadio può avere utilizzi molteplici e vivere di vita propria, per una notte così come in altre occasioni.
“Si può abitare uno stadio da calcio come se fosse un brano di città?”, chiedeva all’inizio Andrea Lissoni, che con Stefano Boeri ha curato e ideato l’evento. Alla resa dei conti, Milano ha offerto la prima incoraggiante risposta. Concreta e positiva.
