Damien Hirst a Napoli. È fantastico essere vivi

Testo di Caroline Corbetta Fotografia di Pino Guidolotti

Napoli, sabato 30 ottobre. Il traffico della città era più congestionato del solito, con le strade intasate di gente che andava “a trovare i suoi morti”. Sarà stata una pura coincidenza, eppure il fatto che l’inaugurazione della personale di Damien Hirst al Museo Archeologico abbia avuto luogo durante il ponte di Ognissanti ha dato un valore aggiunto all’evento.

Questa celebrazione rituale della morte forniva un’interessante introduzione alla sua opera che può essere letta, a sua volta, come una sorta di liturgia di formalizzazione della morte entro un sistema simbolico, per permettere all’artista, e al suo pubblico, di affrontarla. Dal suo debutto nel mondo dell’arte – con la ormai leggendaria collettiva “Freeze” di cui, ancora studente, fu la star nel doppio ruolo di curatore e artista – sono passati sedici anni.

Nel frattempo, Hirst è diventato il più famoso artista inglese vivente, ma le sue ossessioni non sono cambiate molto da quando era un ragazzino che si faceva fotografare in un obitorio nell’atto di abbracciare, ridendo, un’orrida testa mozzata. Un’immagine emblematica che ne condensa la genuina sfrontatezza working-class (con la quale ha scioccato il pubblico ed eccitato i media) e la sua urgenza a confrontarsi con l’idea della morte. Si potrebbe dire che tutto il suo lavoro costituisca una presa di coscienza della morte allo scopo di esorcizzarne la paura. Una ‘missione’ che lo fa stare in ottima compagnia. Basta fare un giro nelle sale accanto a quelle dove è allestita la sua retrospettiva (la prima che l’artista inglese ha accettato, dopo aver rifiutato le offerte delle maggiori istituzioni museali del mondo), per vedere come gli antichi egizi e romani condividessero la sua stessa ossessione.

Mummie, ritratti sepolcrali, busti commemorativi sono accomunati da una ritualità apotropaica; costituiscono una sfida alla mortalità, alla ciclicità della natura attraverso la fissità della rappresentazione – anche se alla fine ne riaffermano tragicamente l’ineluttabilità. In questo senso, Damien Hirst è un artista profondamente classico. Anche se egli ha affermato più volte, e in vari modi, che il suo lavoro è la “cosa vera” e non una rappresentazione, le sue opere sono tanto efficaci proprio in quanto allegorie, immagini simboliche della “cosa vera”.

E questo si scorge inoltrandosi lungo il percorso espositivo, che si snoda, secondo criteri formali e non cronologici, in quattro sale, per un totale di oltre quaranta opere esposte. È un eccellente campionario del repertorio che l’ha reso celebre: i quadri, noti come spot paintings, con i pois colorati rigorosamente disposti su fondo bianco; le spin paintings, dipinte colandovi sopra il pigmento mentre un congegno le fa ruotare; i cabinets con le scatole medicinali e gli strumenti chirurgici; le palline e i palloni tenuti sospesi a mezz’aria con getti d’aria, i quadri fatti con le mosche e quelli con le ali di farfalla, le installazioni sigillate dentro gabbie di vetro…

Ma, soprattutto, ci sono gli animali, interi o sezionati, esposti in casse di vetro riempite di formalina. Viste tutte insieme queste opere, in un allestimento piuttosto fitto come è nello stile di Hirst, non degenerano in una grottesca parodia, come ci si potrebbe aspettare da una reiterazione di immagini tanto forti, talvolta orripilanti. Piuttosto, viene fuori l’ossessività dell’artista che lavora abitualmente per serie, elaborando svariate volte gli stessi linguaggi, ma soprattutto lo stesso tema. Emerge chiaramente come egli sia impegnato in un epico processo di riduzione, riorganizzazione e condensazione del reale. Hirst porta la realtà nello spazio dell’arte e trasfigura la sua caotica violenza, ma anche la sua bellezza, in immagini pure e potenti. I lavori meno riusciti sono quelli in cui l’artista non è stato abbastanza rigoroso in questo processo di astrazione e sintesi e toccano, quindi, derive trash.

È il caso, per esempio, dell’installazione Adam and Eve Together at Last (2004) nella quale, da teli stesi su due tavoli da obitorio, spuntano parti di scheletro, strumenti chirurgici e, addirittura, avanzi di cibo. Il crudele e disordinato processo vitale, fatto di mosche che si nutrono di una testa di mucca mozzata per poi morire elettrificate, in atto nella teca in cristallo dell’opera A Thousand Years (1990), invece è stilizzato dall’artista in una composizione formale ineccepibile. L’arte è nelle mani di Hirst una strategia di controllo della realtà. L’enorme squalo che mise in formalina nel 1991 (e che purtroppo non è in mostra per il suo cattivo stato di conservazione, il che suona come un’ironica rivincita dell’ineluttabile decadenza degli esseri viventi) non fa paura perché è vero e sembra che possa attaccarti da un momento all’altro.

The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living (questo l’evocativo titolo della sua scultura), piuttosto, terrorizza perché è una mise en scène della morte. È un simbolo della nostra umana mortalità ed insieme costituisce un tentativo di allontanarne l’idea, separandola da sé, isolandola nel vetro. L’uso ricorrente da parte di Hirst di teche e scatole di vetro significa un moto di allontanamento e riparo dal flusso fatale della natura. Cosa c’è, infatti, di più artificiale e astratto di un agnello o di un maiale sezionato (le cui metà, per di più, si allontanano, l’una dall’altra, grazie ad un movimento meccanico) “sotto spirito”? O di due mucche tagliate in dodici parti e ricomposte a formare una lunga fila di sezioni bovine?

Away from the Flock (1994), This Little Piggy Went to The Market, This Little Piggy Stayed at Home (1996) e Some Comfort Gained from the Acceptance of the Inherent Lies in Everything (1996) sono i titoli di queste tre opere, il che ci porta a considerare un altro aspetto fondamentale del suo lavoro, la cui efficacia visuale è positivamente problematizzata dai titoli. Lirici e spesso lunghissimi. Anche a parole l’artista esprime la sua urgenza vitalistica (effetto di un’acuta consapevolezza della morte) che, apparentemente contagiosa, rende la visita delle sue mostre un’esperienza esaltante, a dispetto della quantità di cadaveri presenti…

I Want to Spend the Rest of My Life Everywhere, with Everyone, One to One, Always, Forever, Now è un titolo struggente che riempie di poesia un’opera ‘secca’ come può esserla quella formata da due lastre di vetro inclinate, l’una verso l’altra, a sostenere l’ugello di un compressore che, a sua volta, tiene sospesa a mezz’aria, come immobile, una pallina da ping pong. Inversamente gli spot paintings hanno titoli sintetici. In quanto dipinti, benché geometricamente sintetizzata, conservano una dimensione romantica che Hirst sembra voler raffreddare ulteriormente, intitolandoli con i nomi di sostanze chimiche ed organiche come Pardaxin (2004), Argininosuccinic Acid (1995) o Iodomethane – 13c (2001).

Quando Hirst, attraverso il college, iniziò a conoscere il sistema dell’arte, comprese immediatamente che le sue intenzioni di essere un pittore e di realizzare “un’arte importante” non lo avrebbero portato lontano, come racconta in una lunga intervista pubblicata nel catalogo della mostra napoletana. Tuttavia egli, genialmente, non ha abdicato alle sue pulsioni romantiche, ma le ha razionalizzate, cioè le ha rese assimilabili dal sistema-arte, attraverso un linguaggio che si ispira alle metodiche della scienza. Così spiega la genesi degli spot paintings: pittura “ridotta scientificamente”, ma in cui si possono “riversare le emozioni dentro”.

Tra emotività e razionalità, la ricerca di Damien Hirst è in continua tensione tra sollecitazioni opposte. La mostra stessa può essere suddivisa in due sezioni simboliche. Da una parte vi sono tutte le opere che consistono in immagini racchiuse in scatole di vetro come gli scheletri di animali esposti nella teca a croce (Where Are We Going? Where Do We Come From? Is There A Reason?, 2000-2004) e tutti i succitati animali in formalina. Opere che mettono in atto quell’operazione di riduzione e fissazione del flusso naturale nel tentativo di trarne una logica, di cui si diceva prima. Sul versante opposto stanno i quadri con i pois e con le farfalle, gli ingrandimenti di modelli anatomici Hymn (1999-2000) e Sensation (2003), il pallone da spiaggia di Loving in a World of Desire (1996).

Ma anche le centinaia di pillole allineate nella vetrina a specchio di Standing Alone on the Precipite and Overlooking the Arctic Wastelands of Pure Terror (1999-2000) e i suoi primi lavori: ovvero le scatole di medicinali allineate nelle teche farmaceutiche, che rientrano anche nell’altra categoria ipotizzata, ma che sono soprattutto opere multicolori. Dove il colore è pharmakon: droga che induce la perdita di controllo. È l’irrazionalità che minaccia il rigore parascientifico, il romanticismo che si scontra con la razionalità.

Paradossalmente, ma non sorprendentemente, è la vita (come azione) che irrompe nella morte (come sospensione), perché, come ha notato il sociologo Zygmunt Bauman scrivendo a proposito di Damien Hirst, “Tu sei vivo fino a quando sei in decomposizione; una volta che sei preservato per l’eternità, puoi essere solo morto”.

Fino a 31.1.2005
Damien Hirst. Il tormento e l’estasi
Museo Archeologico di Napoli

Damien Hirst
Nato a Bristol nel 1965, Damien Hirst si laurea al Goldsmiths College di Londra nel 1989. Alla fine degli anni Ottanta inizia ad esporre il suo lavoro nelle collettive “Freeze” (Londra, 1988), “Third Eye Center” (Glasgow, 1989), “New Contemporaries” (Londra, 1989). Sono del 1991 le personali: “In & Out of Love” a Londra, “When Logics Die” a Parigi; “Internal Affairs” a Londra. Tra le sue mostre più recenti ricordiamo: “Sensation” (Londra, 1997); “Solo Exhibition” (Oslo, 1997); “The Beautiful Afterlife” (Zurigo, 1997); “Damien Hirst” (Southampton, 1998); “Theories, Models, Methods, Approaches, Assumptions, Results and Findings” (New York, 2000); “Romance In the Age of Uncertainty” (Londra, 2003). Damien Hirst ha ricevuto nel 1995 il premio Turner.
Dettaglio dell’opera Some Comfort Gained from the Acceptance of the Inherent Lies in Everything, 1996. Contenitori in vetro e acciaio, mucche e formaldeide
Dettaglio dell’opera Some Comfort Gained from the Acceptance of the Inherent Lies in Everything, 1996. Contenitori in vetro e acciaio, mucche e formaldeide
This Little Piggy Went to The Market, 
This Little Piggy Stayed at Home, 19
This Little Piggy Went to The Market, This Little Piggy Stayed at Home, 19
Stimulants (and the Way they Affect the Mind and Body), 1991 e Away from the Flock, 1994
Stimulants (and the Way they Affect the Mind and Body), 1991 e Away from the Flock, 1994
Another Girl, 1997
Another Girl, 1997
Particolare del maiale sezionato
Particolare del maiale sezionato
A Thousand Years, 1990
A Thousand Years, 1990
The Acquired Inability to Escape, 1992
The Acquired Inability to Escape, 1992
Where Are We Going? Where Do We Come From? Is There A Reason?, 2000-2004, contenitori in vetro e acciaio con scheletri di animali
Where Are We Going? Where Do We Come From? Is There A Reason?, 2000-2004, contenitori in vetro e acciaio con scheletri di animali

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