I padiglioni imperdibili della Biennale Architettura 2025 e perché visitarli

Vi raccontiamo in anteprima la Biennale Architettura che aprirà questo weekend. Tra i Giardini e l'Arsenale, questi sono i padiglioni che vi consigliamo di vedere. 

La 19esima Mostra Internazionale di Architettura, curata da Carlo Ratti, si intitola “Intelligens. Naturale. Artificiale. Collettiva”. Un titolo che gioca con la radice latina gens, evocando non tanto l’intelligenza individuale, ma una forma di sapere condiviso e interconnesso, in grado di affrontare collettivamente le sfide del presente.

Come di consueto, la Biennale si sviluppa attraverso i padiglioni nazionali dislocati tra i Giardini, l’Arsenale e alcuni luoghi diffusi in città. È il caso, ad esempio, del notevole padiglione del Togo, “Considering Togo’s Architectural Heritage”, che esplora architetture storiche, moderne e brutaliste del Paese, con un allestimento rigoroso e sorprendente. O del padiglione di Taiwan, “Non-Belief: Taiwan Intelligens of Precarity”, che riflette sulla precarietà ambientale e geopolitica con un linguaggio poetico e contemporaneo. Entrambi fanno parte della nostra selezione dei padiglioni più riusciti.

Tradizionalmente, il curatore dispone di due spazi per esprimere la propria visione: le Corderie dell’Arsenale e il Padiglione Centrale ai Giardini. Ma quest’anno, con quest’ultimo chiuso per lavori, l’intero impianto curatoriale si concentra sulle Corderie, dove prende forma un’esplorazione densa e stratificata dell’intelligenza umana come adattamento.


Qui si canta dell’intelligenza come capacità adattiva, come strategia smart in risposta a una condizione globale critica. Ma viene naturale chiedersi se l’adattamento sia davvero la via giusta per un pianeta e una società che ci hanno portato a questo punto.

Alle Corderie, questi interrogativi si riflettono in uno spazio saturo di contenuti e informazioni: progetti, testi, installazioni di diversa natura e output formale si accavallano quasi senza gerarchia, dando corpo a una sorta di “mappa dell’impero in scala 1:1”, borgesiana e ipercontemporanea, che rappresenta il sovraccarico informativo dei nostri cervelli. Ogni progetto è accompagnato da una didascalia scritta da un’intelligenza artificiale: un dettaglio significativo, che solleva un’altra domanda urgente – siamo ancora in grado di elaborare criticamente ciò che riceviamo?

Tra grandi installazioni e casi studio, speaker’s corner e momenti di approfondimento storico, la tecnologia è ovunque. Nei robot, nelle strutture stampate in 3D, ma soprattutto come filtro per leggere il mondo: rete di connessioni, terreno di sperimentazione, risorsa trasformativa. Una fiducia quasi ottocentesca nel potere del pensiero e della tecnica, che sembra voler perforare i muri dell’Arsenale e proiettarsi verso una nuova Esposizione Universale.

Se però alle Corderie le idee non mancano, è forse il respiro che manca per coglierle tutte. Ecco perché alcuni padiglioni nazionali si distinguono: per aver saputo raccogliere un concetto e svilupparlo con chiarezza, coerenza e potenza visiva. Quelli che seguono sono, secondo noi, i più riusciti.

Olanda, “Sidelined” (Giardini)

Padiglione Olanda. Foto Cristiano Corte

Per chi tifiamo? Chi è rappresentato? Chi controlla il gioco e quali sono le regole?

Il designer sociale Gabriel Fontana ha scelto lo sport come strumento per individuare e risolvere le dinamiche di esclusione che si annidano negli spazi del quotidiano: ecco allora la possibilità di giocare un calcio a divise trasformabili, giocato in campi mutevoli e senza squadre definite, che cerca uno scardinamento queer e inclusivo di un ecosistema tradizionalmente difficile da abitare in questi termini. Il padiglione-bar sport, progettato da Koos Breen e Jeannette Slütter, è uno spazio esagonale ispirato al campo a tre lati di Asger Jorn, dove si intrecciano oggetti sportivi, video e un lungo, sinuoso e collettivo calcetto ripensato. Curato da Amanda Pinatih, “Sidelined” diventa quindi una riflessione sullo sport come sistema di regolazione di corpi e i comportamenti, esattamente come l’architettura, che parte da un’idea di intelligenza umana come intelligenza relazionale e comunitaria.

Belgio, “Building Biospheres” (Giardini)

Padiglione del Belgio. Foto Michiel De Cleene

L’intelligenza che il padiglione belga sceglie di esplorare è quella delle piante, la “plant intelligence” che può diventare un fattore dinamico con cui progettare il clima dentro le architetture del futuro. “Building Biospheres” è un prototipo, curato dal paesaggista Bas Smets e da Stefano Mancuso, il teorico e ricercatore della neurobiologia vegetale: più di 200 piante subtropicali popolano lo spazio centrale e, grazie a sensori e software, regolano in tempo reale clima, luce e ventilazione. Il padiglione si trasforma così in una biosfera vivente, che possa far “sognare l’architettura come un microclima, in cui piante ed esseri umani possano coesistere”, come ha dichiarato Smets. E a raccontarlo, misurandolo scientificamente, arrivano negli spazi adiacenti dati ambientali, ricerca storica, e quattro visioni di giovani gruppi di progettisti per un’architettura che sappia pensare e respirare con le piante.

Bahrain, “Heatwave” (Arsenale)

Padiglione del Bahrain. Foto Ishaq Madan

“Heatwave” è il titolo del progetto presentato dall’Autorità per la Cultura e le Antichità del Bahrain alla 19ª Biennale di Architettura di Venezia. Il richiamo al tema scelto da Carlo Ratti è chiaro, immediato è infatti il collegamento con lo shock termico dell’installazione in apertura della mostra all’Arsenale. In una nazione in cui d’estate le temperature raggiungono picchi di 50°C, l’architettura diventa necessario alleato per la sopravvivenza. Curato da Andrea Faraguna, “Heatwave” propone una struttura per il raffrescamento passivo degli spazi pubblici, ispirata alle tecniche tradizionali del Bahrain e integrata con innovazioni come pozzi geotermici e camini solari. Concepita come un'unità modulare, è progettata per un'implementazione scalabile in diversi contesti urbani. Una sorta di paesaggio astratto di sabbia e sacchi evoca il legame tra l’ambiente costruito e le intelligenze che lo sostengono.

Lussemburgo “Sonic Investigations” (Arsenale) e Padiglione Argentina “Siesteria” (Arsenale)

Padiglione del Lussemburgo. Foto Melania Dalle Grave

Siamo sicuri che guardare sia l’attività principale da esercitare alla Biennale di Architettura? Il Lussemburgo, con una installazione prettamente sonora, e l’Argentina, con uno spazio da vivere (e dove incontrarsi) creato da un lungo gonfiabile, ribaltano una narrazione che diamo per scontata. Il siestiario argentino si pone come una soluzione di continuità all’interno della mostra, offrendo un luogo dove staccare e riposarsi – e perché no, divertirsi. Al centro, una grande silobag, elemento chiave della vita rurale argentina, che qui viene ricontestualizzata come seduta. Le “investigazioni soniche” del Lussemburgo sono invece un esplicito invito a cambiare focus dalla vista al suono, con un padiglione dove ancora una volta ci si può rilassare su un grande divano, le luci sono soffuse e l’ascolto diventa essenziale. Ispirato alla celeberrima 4’33” di Cage, Sonic Investigations sfuma i confini tra umano e non umano. Protagonista è la traccia sonora di Ludwig Berger, che intreccia registrazioni ambientali del Lussemburgo nate da ricerche condotte con esperti in ecologia, storia, scienze sociali e data science.   

Cile “Reflective Intelligences” (Arsenale) e Taiwan “Non-Belief: Taiwan Intelligens of Precarity” (Palazzo delle Prigioni)

Padiglione del Cile. Foto Luca Capuano

In una Biennale che è tecno-ottimista a livelli da positivismo ottocentesco o new economy, che esibisce robot come si faceva con i “selvaggi” agli Expo parigini di fine Ottocento, un approccio più critico arriva da due paesi avanzatissimi. Taiwan, il regno dei semiconduttori e il Cile, il paese dove c’è la connessione internet più veloce del mondo. I sudamericani usano la metafora del tavolo da lavoro e giocano sul significato di “riflesso” e “riflessione” installandone uno lunghissimo all’interno del padiglione e inondandolo d’acqua. Sulla superficie, un documentario sulla relazione difficile tra i data center e le comunità dove sono installati. Il data center è il vero protagonista di questa installazione imperniata sull’ “intelligenza riflessiva”: senza di loro, del resto, tutta questa Biennale non potrebbe esistere (e neanche la nostra vita). 

Padiglione del Taiwan. Courtesy of National Taiwan Museum of Fine Art

Al Palazzo Prigioni Taiwan costruisce la sua mostra sul concetto di credenza, affrontando di petto la crescita tecnologica portentosa dell’isola e al tempo stesso la sua fragilità geopolitica. Una parete di statuette votive di Mazu, la dea del mare e divinità simbolo di Taiwan, isola che raggiungere via mare dalla Cina continentale è impervio, si trasforma in una pannello smart, connettendo presente e futuro, tradizione e tecnologia, ed elaborando una raffinata metafora della relazione di Taiwan con Pechino.

Lettonia, “Landscape of defence” (Arsenale)

Padiglione della Lettonia. Foto Michiel De Cleene

All’Arsenale uno dei padiglioni più provocatori e divisivi della Biennale. Ma anche dei meglio riusciti e dei più attuali, in una esposizione nata sotto la stella di due eventi di portata mondiale: il conclave a Roma, e le scaramucce (guerra?) tra India e Pakistan. In Europa, almeno per ora, lo spauracchio della guerra ha un nome: Mosca. E la Lettonia con la Russia ci confina. Per questo lo stato baltico sta rafforzando le difese al confine: barriere, cavalli di Frisia, denti di frisia e trincee anticarro. Ma c’è anche una parte di informazioni: come reagire a una invasione via terra? Con elementi di arredo pubblico in giallo neon e un video, il padiglione lettone racconta tutto questo. In bilico tra la paura per la prossimità della guerra e l’eventuale senso di sicurezza che possono restituire le architetture anti-guerra. 

Paesi Nordici, “Industry Muscle” (Giardini)

Padiglione dei Paesi Nordici. Foto Ugo Carmeni

L’arte performativa può rivelare il rapporto tra architettura e corpo? È questo l’interrogativo dal quale ha inizio il progetto “Industry Muscle” presentato dai Paesi Nordici per questa Biennale, che propone cinque “partiture speculative” come strumenti critici per ripensare l’architettura attraverso il corpo trans. L’artista finlandese Teo Ala-Ruona, con un team multidisciplinare, mette in atto una sperimentazione che intreccia performance, installazioni e teoria queer in un dialogo intenso con l’architettura del padiglione nordico di Sverre Fehn, svelando come lo spazio costruito sia strutturato secondo norme sociopolitiche. Curata da Kaisa Karvinen, la mostra contrappone al modernismo di Fehn una visione alternativa che valorizza cinque nuovi orientamenti per la pratica architettonica alla base di ogni partitura performativa: impurità, decategorizzazione, performance, tecno-corpo e riuso.

Santa Sede, “Opera Aperta” (Complesso di Santa Maria Ausiliatrice)

Padiglione della Santa Sede. Foto Marco Cremascoli

Restituire alla collettività un luogo di scambio e di cultura può essere una risposta alle sfide che la contemporaneità ci mette di fronte: questa è la proposta del padiglione della Santa Sede, che prende spunto dall’enciclica Laudato si*’* di Papa Francesco. Curato da Marina Otero Verzier e Giovanna Zabotti, con studi come Tatiana Bilbao Estudio e Maio Architects, “Opera Aperta” dà il via a un progetto di valorizzazione e trasformazione del Complesso di Santa Maria Ausiliatrice in un laboratorio di restauro e partecipazione collettiva. Valorizzare l’esistente in questo caso significa coinvolgere artigiani, studenti,cittadini e associazioni in attività che rendono l’architettura un processo aperto, inclusivo e sostenibile.

Uzbekistan, “A Matter of Radiance” (Arsenale)

Padiglione dell'Uzbekistan. Foto Gerda Studio. Courtesy of the Uzbekistan Art and Culture Development Foundation (ACDF)

Alcuni dei padiglioni più intelligenti delle Biennali degli ultimi anni hanno raccontato il patrimonio moderno dei rispettivi paesi, mettendolo in relazione con il tema generale dell'esposizione e con le questioni più urgenti del dibattito contemporaneo. Alla Biennale 2025, una delle declinazioni più riuscite di questo approccio è il Padiglione dell'Uzbekistan, curato da Grace (Ekaterina Golovatyuk e Giacomo Cantoni), con commissaria Gayane Umerova, Presidentessa della Uzbekistan Art and Culture Development Foundation. “A matter of radiance” si concentra su un singolo edificio, lo spettacolare Sun Institute of Material Sciences di Parkent (1981-1987), che sfrutta l'energia solare per studiare il comportamento dei materiali ad altissima temperatura. Frammenti selezionati del gigantesco centro di ricerca, eredità ambigua di un passato recente ma ormai concluso, sono trasportati o riprodotti nel padiglione. Lo scandiscono come affascinanti totem, che vogliono stimoare “l'elaborazione di narrazioni sull'impatto scientifico, sociale e culturale della tecnologia e la sua capacità di evolvere e adattare il suo significato nel corso del tempo”.

Estonia, "Let me warm you" (Riva dei Sette Martiri)

Padiglione dell'Estonia. Foto Joosep Kivimäe

Basta camminare lungo la Riva dei Sette Martiri, sulla via da San Marco ai Giardini, per notare che una delle case storiche affacciate sul Bacino è nel pieno di un “Centodieci”. Almeno in apparenza, visto che metà della facciata è tamponata con uno strato di isolante rivestito di pannelli bianchi. In realtà quello che si vede è uno straniante teaser della domanda che il padiglione estone pone alla Biennale di quest’anno: tutti gli adeguamenti energetici che stanno investendo migliaia di edifici residenziali in Europa, sono semplici adeguamenti a una normativa, o riescono invece a migliorare la qualità spaziale e relazionale di tante vite?
“Let me warm you”, curato dalle architette Keiti Lige, Elina Liiva, e Helena Männa, occupa un appartamento esistente al piano terra, lo avvolge tra le varie pellicole semitrasparenti da cantiere di ristrutturazione, e modelli di palazzi ex sovietici con i dialoghi di scene tragicomiche condominiali, per esplorare temi che vanno dalla paura del cambiamento alla rinascita di un quartiere.

"Constructing la Biennale" (facciata del Padiglione Centrale, Giardini)

Facciata del Padiglione Centrale. Foto courtesy Politecnico di Torino/Northeastern University

Il Padiglione Centrale è chiuso per ristrutturazione, ma questa non è certo una ragione per lasciarlo come un vuoto inerte in mezzo ai Giardini. Il progetto di Politecnico di Torino e Northeastern University lo attiva con una “faux façade” che nasconde – anzi, dischiude – un dispositivo per esplorare le Biennali veneziane di architettura attraverso il tempo. Gli spazi di un piccolo “non-pavilion” raccontano con flussi di dati, mappe, interviste, oggetti fisici e video quella che viene definita la complessità socio-materiale di quello che è un luogo di discussione globale, dando un’interpretazione critica di come il fenomeno-Biennale prende forma.  
Si uniscono in questa narrazione progettazione architettonica, network science, information design, data visualization ed etnografia dell’architettura, per esplorare la mostra come un oggetto stratificato. Come suggerisce la rappresentazione di tutti i soggetti coinvolti come nuvola di punti interconnessi: Che cosa da’ forma a una biennale? Chi sono gli attori dietro le quinte? Quali sono gli oggetti, gli strumenti, le prospettive in gioco?

E per finire… Margherissima!

Spesso viviamo Venezia come una città staccata dal suo contesto. Non è così. Marghera per anni è stata la zona industriale per antonomasia del territorio veneziano. Ora deve scoprire cosa farà “da grande”. “Margherissima” è il progetto che prova a reimmaginare il grandissimo hinterland industriale veneziano nell’habitat perfetto per il cittadino del futuro. Sono proprio i cittadini del futuro, gli studenti dell’AA, che hanno creato “Margherissima”, sotto la guida di Nigel Coates. Il risultato è un modello in scala pieno di sorprese di una città del futuro che pare una Manhattan parallela. Invece è a due passi da Venezia, che viene rappresenta, ironicamente, sotto una cappa di vetro. È una delle cose più divertenti, fresche e (finalmente!) visionarie di una Biennale sospesa tra sogni tech e pretese pedagogiche. Se volete staccare da Venezia e dalla sua retorica, questo è il posto perfetto. Fuori da “Margherissima” ci sono dei tavolacci dove bere una birra e mangiare una pizza, circondati dalla natura. “Margherissima” è la perfetta happy hour di questa Biennale.

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