Le città sono un laboratorio architettonico a cielo aperto e, nel contesto italiano, Milano è un esempio emblematico: un tessuto urbano in continua trasformazione, fatto di stratificazioni, demolizioni, ricostruzioni e innesti contemporanei che si relazionano alla città esistente, costituendo quelli che Aldo Rossi, nel suo celebre L’architettura della città, definiva “fatti urbani”.
Negli ultimi vent’anni, la morfologia urbana milanese ha subito mutazioni radicali. Quartieri come Porta Nuova, CityLife (che sorge dove c’era la vecchia Fiera della città) e l’ex scalo di Porta Romana sono diventati nuovi poli direzionali, con l’edilizia per uffici spesso a fare da catalizzatore del cambiamento.
Ma è davvero sostenibile, oggi, continuare a costruire nuovi spazi per il lavoro? E quali sono le implicazioni - urbanistiche, sociali, ambientali - di questa tendenza? Lo abbiamo chiesto a Filippo Pagliani e Michele Rossi, fondatori di Park, lo studio milanese che da anni interviene su alcuni dei nodi più sensibili della città, firmando edifici per Coima, Luxottica, Salewa e altre grandi aziende, tra riqualificazioni di architetture del Novecento e nuovi landmark urbani.

A partire da alcuni progetti chiave dello studio, abbiamo affrontato i temi determinanti per la progettazione contemporanea degli uffici, partendo dal caso di Milano.
Lavorare con le preesistenze: dal retrofitting di Gioiaotto alla decostruzione
“Vent’anni fa, l’ideale per un architetto era costruire un edificio da zero. C’era la percezione che questo potesse esprimere al meglio una certa ‘autorialità’ del progetto” racconta Michele Rossi mentre introduce Gioiaotto, un progetto di Park per Hines Italia. Il fabbricato porta con sé una tradizione milanese firmata da Marco Zanuso e Pietro Crescini, che hanno realizzato il progetto originale negli anni ’70 nell’ambito del più ampio sviluppo del Centro Direzionale di Milano e della prima trasformazione di via Melchiorre Gioia in un asse strategico per il terziario.

Gioiaotto, quindi, è un progetto di retrofitting, cioè di “aggiornamento” dell’edificio esistente agli standard tecnici attuali, attraverso le sostituzioni e gli adeguamenti delle singole parti, e il miglioramento delle prestazioni energetiche. “Abbiamo ritenuto che avesse una forza architettonica tale da rimanere contemporaneo anche in un contesto profondamente mutato”, spiega Michele Rossi.
Uno degli interventi più significativi ha riguardato il tetto, mai risolto da Zanuso perché, quando è stato costruito nel 1973, quello era l’edificio più alto della zona. “Abbiamo lavorato su ciò che definiamo il ‘quinto prospetto’, aggiungendo frangisole che nascondono gli impianti e restituiscono un’immagine compiuta” commenta Rossi.
Gli interni sono stati completamente ripensati, e il passo dei serramenti è sottolineato dalle pinne, ossia dagli elementi verticali in vetro che all’esterno danno ritmo alla facciata, mentre all’interno aumentano la flessibilità permettendo l’installazione di pareti mobili.

“Non sempre si può fare ciò che è stato fatto per Gioiaotto, a volte per pura scelta della committenza, a volte semplicemente perché non ne vale la pena” commentano i fondatori di Park. Ma quali sono le alternative?
“Noi stiamo lavorando molto sulla circolarità e il recupero dei materiali esistenti” spiegano. È il tema dello “urban mining”, su cui lo studio ha lavorato anche in occasione della Biennale di Architettura di Venezia 2025, portando in mostra alle Corderie una mappatura della città di Milano che indaga la quantità di materiale di cui disponiamo con l’attuale paesaggio costruito, e che spinge a considerare la città non solo come spazio di trasformazione, ma come fonte (quasi) inesauribile di materie prime.
A noi piace il termine ‘decostruzione’: uno smontaggio selettivo che permette di recuperare e rimettere in circolo le parti dell’edificio.

“Non si tratta di demolizione” spiega Filippo Pagliani, “a noi piace il termine ‘decostruzione’: uno smontaggio selettivo che permette di recuperare e rimettere in circolo le parti dell’edificio”. Una pratica che, se diffusa su larga scala, a lungo termine potrebbe incidere profondamente sulla filiera dell’edilizia.
Il rapporto con la città: Pirelli 35 e la responsabilità urbana

Ancora nella zona di Porta Nuova, in via Pirelli, è stata appena conclusa la costruzione del progetto Pirelli 35, che Park ha sviluppato insieme allo studio norvegese Snøhetta per Coima. Questa volta si tratta della trasformazione di un edificio degli anni ’60, che però ha mostrato dei limiti importanti: “l’edificio originario era una barriera tra il quartiere direzionale e quello popolare più vicino alla stazione centrale. Il nostro progetto nasce dall’idea di creare un collegamento pedonale con un edificio ‘attraversabile’”.
Integrare lo spazio pubblico negli interventi privati è oggi una delle sfide più delicate nella progettazione urbana. “Quando abbiamo iniziato, era difficile far comprendere al cliente quanto siano importanti le funzioni pubbliche anche in edifici privati. Ma oggi il valore di un immobile dipende anche da quanta vitalità riesce a generare al piano terra” commenta Pagliani.

Nel progetto di Pirelli 35, la rimozione dell’ala centrale lascia spazio a una nuova corte pubblica su cui si affaccia un volume sospeso. La pavimentazione in pietra ondulata guida i passaggi tra la Stazione Centrale e la Biblioteca degli Alberi, il giardino pubblico dell’area realizzato da Inside Outside|Petra Blaisse per Coima.
Dal punto di vista materico, il progetto lavora per stratificazione e contrasto: la facciata su Via Bordoni, verso il quartiere residenziale, ha un rivestimento in metallo verniciato in color terracotta, mentre il cemento effetto grezzo è più in armonia con i grattacieli contemporanei di Porta Nuova.
Il rischio è che interi quartieri si svuotino la sera, diventando luoghi poco sicuri.
In progetti come Pirelli 35, Palazzo Sistema – la nuova sede della Regione Lombardia con un giardino pubblico al piano terra – o la Luxottica Digital Factory, l’obiettivo è quello di restituire agli edifici una dimensione urbana, evitando che diventino architetture chiuse e autoreferenziali.

Resta però un interrogativo cruciale: serve davvero costruire altri uffici? “Per la nostra esperienza, sì, perché le aziende cercano edifici più efficienti, sostenibili, con costi più bassi e condizioni migliori per il benessere dei lavoratori. Il rischio è che interi quartieri si svuotino la sera, diventando luoghi poco sicuri. Per questo proponiamo sempre una connessione forte con lo spazio urbano al piano terra – e a volte anche sul tetto” affermano i fondatori di Park.
Progettare un ufficio contemporaneo: la serra di Lybra
Dal recupero del costruito alla flessibilità degli spazi, dal rapporto con il suolo urbano al design degli interni, sono molte le variabili che rendono complessa la progettazione degli uffici contemporanei. “Una delle eredità che ha lasciato il Covid è che le persone non vogliono tornare in spazi freddi o anonimi”, spiega Park. Anche l’open space, che negli ultimi anni sembrava essere la soluzione definitiva e applicabile a tutti gli ambienti di lavoro, è stato rimesso in discussione: “è difficile parlare di un modello unico da seguire. Ci sono aziende che vogliono spazi aperti, altre che cercano ambienti più segmentati. La progettazione deve adattarsi, non imporre schemi.”

Con Lybra, il nuovo Headquarter di Sap Italia firmato da Park nel distretto di Porta Romana, lo studio introduce il tema dello spazio collettivo. L’edificio, composto da due corpi principali, è attraversato dal Green Void, una grande serra bioclimatica centrale, vetrata, inondata di luce naturale e abitata da vegetazione tropicale. Al suo interno si sviluppa una scenografica scala in legno che attraversa verticalmente lo spazio. Più che un semplice atrio, il Green Void è pensato come un’infrastruttura: “non è solo uno spazio di passaggio, ma un dispositivo ambientale e percettivo. Una condizione di luce, trasparenza e natura che connette i due volumi e genera continuità fisica ed emotiva” commenta Pagliani.
L’involucro architettonico di Lybra richiama l’estetica delle serre, con una composizione ritmica di elementi verticali e orizzontali che giocano sull’equilibrio tra trasparenza e opacità. Le facciate, vetrate per oltre due terzi della superficie, integrano moduli fotovoltaici serigrafati che producono energia.
Più che inseguire un modello universale, si tratta quindi di dare forma a soluzioni puntuali, capaci di mediare tra esigenze spesso contrastanti: l’efficienza richiesta dalle aziende, le dinamiche del mercato immobiliare, ma anche — e sempre più — il benessere quotidiano di chi quegli spazi li abita. “Per noi è stato un bene che si sia arrivati a questa consapevolezza” concludono da Park, “perché finalmente si dà più peso alla qualità degli spazi e, di conseguenza, al progetto.”