"Economisti e teorici dell'innovazione, come Jeremy Rifkin, Yochai Benkler, Michel Bauwens e molti altri hanno concluso che la terza rivoluzione industriale è a portata di mano". Così recitava l'incipit di un recente sondaggio di Statistical Studies of Peer Production.
È effettivamente difficile non testimoniare l'affermazione e la sempre maggiore visibilità che i temi della peer production (produzione paritaria) – l'alternativa decentralizzata alla produzione industriale in larga scala, teorizzata per la prima volta dal professor Yochai Benkler nel 2006 nel libro seminale The Wealth of Networks – acquistano sulla scena della rete e nella realtà dei fatti.
Una testata importante come The Economist ha dedicato al fenomeno un intero report, esperti come Michel Bauwens (fondatore della P2P Foundation) vengono invitati a istruire sul tema persino alla Pontifical Academy of Social Sciences; io stesso, per la prima volta, ho potuto vagliare il vivo interesse quando un mio intervento sulla produzione collaborativa, distribuita e P2P, pubblicato di recente, ha ricevuto in un paio di giorni quasi trentamila visite.
Tuttavia, a prescindere da una sterile attività di valutazione dell'attuale penetrazione di questo paradigma nella realtà, dovremmo forse riflettere maggiormente su quelli che appaiono gli inesorabili dati di fatto che ne decreteranno un repentino e pervasivo successo.
La cultura del design di massa, delle mode, della produzione su larga scala ci ha dato una società strutturata su decisioni top-down, fatta di strutture complesse (produzione, educazione, lavoro, ...) e di strade predefinite. Ricevi un'educazione allo scopo di prepararti a eseguire un lavoro – talvolta uno qualsiasi – che ti remunera in termini di ciò che puoi possedere e consumare: i beni che il design e la produzione di massa ritengono essere di tuo, almeno parziale, gradimento.
La mediocrità è obsoleta
Per anni, seguendo questo mantra, abbiamo prodotto bisogni artificiali, creando necessità inesistenti o quasi, facili da raccontare e disponibili per tutti, piuttosto che andare a indagare i problemi e le necessità reali delle persone e delle comunità. In virtù di meccanismi di protezione, monopoli, brevetti, copyright, l'innovazione e il significato sono stati costretti, bloccati, soffocati.
La società competitiva e la produzione industriale hanno prodotto mediocrità: la novità di oggi è che la mediocrità è obsoleta.
Su questo substrato culturale, s'innesta oggi una radicale, sistemica, crisi del capitale e, in fin dei conti, una crisi della moneta: una moneta divenuta assurdamente scarsa, indisponibile, incapace di modellare gli scambi che servirebbero per far nascere una nuova modalità di produzione cooperativa, inclusiva e radicalmente più equa.
Dunque, se avete mai immaginato un momento fondamentale in cui il design sarebbe divenuto uno strumento politico, ecco, questo momento è arrivato: chiamiamolo cultura P2P o movimento della peer production, chiamiamolo open-p2p-design, basta che prendiamo coscienza che qualcosa di fondamentale è in atto e che la avocata terza rivoluzione industriale è destinata a essere anche e altrettanto una rivoluzione sociale e culturale.
Ora che la necessità per la larga scala scompare grazie a una cristallina democratizzazione dei mezzi di produzione – ormai solo legata a un fattore tempo che si comprime esponenzialmente ogni giorno – la rivoluzione cooperativa che è iniziata riporta finalmente l'uomo (peer), come attore nella sua comunità, al centro dell'atto della produzione, umanizzandola.
DIY e P2P sono dichiarazioni di indipendenza dal capitale, dalle istituzioni nazionali e internazionali, dal mercato; sono un richiamo a un ruolo in prima persona e a una responsabilizzazione del singolo come attore nella sua tribù.
Il design stesso si tribalizza. Giorni fa, leggevo un post stupendo che, nella sua semplicità, dice tutto, chiaramente, in pochissime parole:
"If you're lucky you will have patrons, not customers. Customers barely exist in the creative world now."
In risposta a un design empatico la manifattura si farà liquida, In Real Time: si produce solo all'atto dell'esistenza della domanda, non prima, semplicemente perché non è più necessario.
Quali infrastrutture?
Se da una parte non possiamo evitare di cedere con entusiasmo a questa rivoluzione che ruota intorno al significato – da diversi punti di vista –, dall'altra non possiamo chiudere gli occhi di fronte alle enormi trasformazioni di cui abbiamo bisogno per cogliere questa opportunità.
Abbiamo bisogno di una nuova infrastruttura culturale, di un patrimonio di conoscenza comune, qualcosa che si comincia a intravedere in progetti come il Global Village Construction Set di Open Source Ecology o nei processi come l'Extreme Manufacturing, il processo di manifattura agile, a volte volontaristico e cooperativo che wikispeed sta sviluppando per metterlo a servizio del bene comune.
Una nuova rete distribuita di luoghi di produzione culturale e fattuale deve affermarsi, una rete che deriverà dai fablabs, dai makerspace e dagli hackerspace di tutto il mondo – le nuove fabbriche – o da progetti ambiziosi come quello, tutto italiano, di Bottega 21. Iniziative che uniscano l'eredità culturale dei luoghi e delle tradizioni esistenti alle tecnologie ora disponibili.
Ma non basterà, perché occorrerà sviluppare anche una nuova concezione della catena di approvvigionamento. La ricerca sui materiali dovrà darcene di nuovi – degli open materials versatili, facilmente reperibili e riciclabili localmente – mentre il design stesso dovrà essere invariante dai materiali, sottintendendo una producibilità locale, basata su materie prime e risorse locali.
Ancor più interessante sarà nei prossimi anni analizzare gli effetti che la ri-progettazione della produzione in chiave distribuita e P2P avrà su realtà come l'educazione, la formazione o il lavoro. In una situazione in cui la disponibilità di lavoro tradizionale su base industriale si assottiglia, avremo sempre più tempo da dedicare a economie alternative, fatte di scambi e di trust sociale, dalle quali ricevere e alle quali contribuire le nostre risorse, il nostro lavoro e il nostro impegno.
Nuove competenze saranno necessarie per ri-localizzare una produzione diversa e indipendente. Avremo bisogno di insegnare un nuovo modo di progettare, modulare e incline all'innovazione e al cambiamento, avremo bisogno di persone capaci di gestire spazi informali di produzione, di facilitatori. Dovremo insegnare ai discenti a indagare, scoprire e creare il lavoro, il prodotto, il servizio di cui la comunità ha bisogno piuttosto che limitarsi a seguire un qualsiasi curriculum formativo in attesa che un "fantomatico" mercato del lavoro li reclami.
Douglas Rushkoff scriveva quasi un'anno fa: "La domanda che dobbiamo cominciare a porci non è 'come impiegare le persone le cui abilità sono rese obsolete dalla tecnologia', ma piuttosto 'come possiamo organizzare la società attorno a qualcosa di diverso da un impiego tradizionale'. Lo spirito di un'impresa che di solito associamo con il concetto di 'carriera' potrebbe essere spostato verso un concetto più collaborativo, risolutivo e perfino costruttivo?"
La domanda più importante a cui rispondere dunque è forse questa: ora che abbiamo gli strumenti per farlo, saremo in grado di ricercare cooperativamente un nuovo significato?
Saremo in grado di partecipare con convinzione alla rivoluzione che abbiamo a portata di mano?
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La rivoluzione a portata di mano
Grazie alla rete, i temi della peer production, la produzione paritaria, hanno acquistato sempre maggiore visibilità e affermazione. La domanda più importante a cui rispondere dunque è forse questa: ora che abbiamo gli strumenti per farlo, saremo in grado di ricercare cooperativamente un nuovo significato di produzione?
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- Simone Cicero
- 15 giugno 2012
- Roma