Il progetto urbanistico della pluralità

Il direttore di InfraNet Lab osserva che gli architetti sono chiamati, nuovamente, a pensare il progetto urbanistico e si chiede se questo risveglierà anche il progetto politico della città.

Oggi che gli architetti tornano ad affrontare il progetto urbanistico. Risusciteranno anche il progetto politico?

"Possono gli architetti rispondere alla domanda sociale di pluralità? […] Se la società non ha forma, come possono gli architetti costruirne la controforma?"
Aldo Van Eyck, in Alison Smith, a c. di, Team 10 Primer 1953-62, in Architectural Design, dicembre 1962, p. 564.


Le recenti manifestazioni politiche in Tunisia, in Egitto e in Libia sono state significative per la loro capacità di mettere insieme una forza politica collettiva attraverso l'unione degli individui. Le ritengo significative per la natura dialettica del rapporto tra individuale e collettivo, che sono le componenti essenziali del concetto politico di pluralismo. Contemporaneamente mi è venuto in mente che un tale dibattito sulla politica della pluralità non si incontrava, nel campo del progetto, dall'epoca del tardo Modernismo. Questo specifico problema politico non solo resta a tutt'oggi irrisolto, ma secondo me è anche uno dei campi di ricerca più critici dell'urbanistica moderna.

Prima di tutto ricordiamoci che cosa sia in gioco qui e perché l'idea di pluralità sia stata così importante per il progetto urbanistico moderno. Una delle questioni principali per il CIAM, per il Team X e per i loro successori megastrutturalisti era come riuscire a progettare una città che conciliasse l'individuale e il collettivo, che si contrapponevano in metropoli sempre più diversificate. Mentre i più pensano che "plurale" significhi semplicemente "diverso", "differente", "divergente" e così via, il concetto in realtà è di natura molto più complessa e più politica. Hannah Arendt, filosofa della politica, dà una delle definizioni più sottili della pluralità, riferendosi a essa come alla nostra uguaglianza nella distinzione, e la pone al centro della sfera pubblica:

"La pluralità umana, condizione fondamentale sia del discorso sia dell'azione, ha il duplice carattere dell'eguaglianza e della distinzione. Se gli uomini non fossero uguali, non potrebbero né comprendersi fra loro, né comprendere i propri predecessori, né fare progetti per il futuro e prevedere le necessità dei loro successori. Se gli uomini non fossero diversi, e ogni essere umano distinto da ogni altro che è, fu o mai sarà, non avrebbero bisogno né del discorso né dell'azione per comprendersi a vicenda." [1]

L'identificazione di questa complessa e apparentemente contraddittoria sfera pubblica trova forse la sua miglior sintesi nella metafora in cui Arendt parla di un gruppo di persone sedute intorno a un tavolo. Per Arendt il tavolo è il mondo collettivo: mette in relazione coloro che gli stanno seduti intorno ma contemporaneamente impedisce che si "cadano addosso" a vicenda, assimilando i rispettivi sistemi di credenze. La scomparsa del tavolo li renderebbe estranei in uno spazio privo di relazioni comuni: il che costituirebbe il crollo della sfera pubblica, nonché della realtà e della stabilità che vi sono associate. [2] Sia Arendt sia Van Eyck, in sostanza, cercano di riconciliare l'individuale (la distinzione) con il collettivo (l'eguaglianza) dando forma politica a una città che era al momento una metropoli in espansione selvaggia e a una sfera pubblica che era all'epoca il coacervo di istanze diverse.

L'istanza della pluralità è oggi ancor più accentuata, con oltre la metà della popolazione di certe città visibilmente costituita da "minoranze". Questa situazione dilagante esige che il progetto si chieda come si possa ottenere l'unità nella diversità, riconciliare l'individuale con il collettivo e consentire la distinzione e l'eguaglianza. Trascurando queste domande l'urbanistica contemporanea si è ridotta a un coacervo di istanze che soccombe di fronte al puro capriccio dell'urbanistica mercantile.

È utile notare quando questo "quasi" progetto di pluralità cadde in sonno all'epoca del tardo Modernismo, allo scopo di far luce su frammenti di esso che andrebbero raccolti e sviluppati. Probabilmente l'ultima battaglia di un progetto urbanistico politico di pluralità era implicita nella megastruttura. Le Corbusier, che sottolineò ripetutamente l'importanza dell'individuale e del collettivo nella Carta di Atene del CIAM, pose il seme della megastruttura nel suo Plan Obus di Algeri. Nel suo progetto una forma lineare continua mescolava infrastruttura e topografia nella suddivisione in più unità residenziali. In questo quadro Le Corbusier lasciò le abitazioni "aperte" perché fossero progettate dai loro singoli inquilini e rivelò nei suoi schizzi la diversità cui pensava.

Trent'anni dopo, negli anni Sessanta, la megastruttura era arrivata a completa maturità e le sue caratteristiche essenziali venivano esemplificate nella Ville Spatiale di Yona Friedman. La Ville Spatiale presentava un'ampia cornice infrastrutturale permanente e deterministica, che dava ordine al collettivo (e che, guarda caso, levitava sopra la città). Entro questa cornice una serie di contenitori indeterminati, mobili e adattabili, davano spazio all'individuale. La megastruttura oscillava tra controllo e scelta, e fu poi criticata come mera illusione della scelta travestita sotto la forma di variazioni controllate. Il che orientava apertamente il dibattito in favore della "scelta", e concentrava di nuovo l'energia sui progetti di controcultura dei soft pod, dei contenitori non costrittivi. Pareva una mossa innocente, ma la scomparsa della cornice collettiva erodeva alla radice la fragile dialettica della pluralità, come pure la città in quanto forma politica.

Negli ultimi due decenni gli architetti, dopo una lunga assenza della dimensione urbanistica, hanno lentamente iniziato a impegnarsi di nuovo sulla città. L'imprevedibile economia globale ha privilegiato i progetti estremamente grandi oppure quelli estremamente piccoli, innescando il ritorno della megastruttura e del soft pod nel dibattito contemporaneo. Ma queste parole sono tabu, perché legate a troppa zavorra tardomodernista. Nuovi progetti come il grattacielo Rødovre di MVRDV, il complesso residenziale Interlace di OMA (Singapore), le Mountain Dwellings di BIG e il Vanke Center di Steven Holl sono solo alcune delle megastrutture che adottano una ragione formale tipicamente giustificata dall'ecologia e dalla sostenibilità. I loro contenitori non possono vantare di essere mobili, ma neppure le megastrutture costruite negli anni Sessanta lo erano. La differenza però è che il programma teorico della megastruttura e la sua efficienza tecnologica (per non parlare della convenienza economica) negli anni Sessanta si sono trovati a mal partito. Mentre i "megastrutturalisti" moderni andavano alla ricerca di un sistema fondato sulle prestazioni, il fallimento dei loro progetti costruiti fu di essere solo rappresentazioni della pluralità.

Non che si voglia qui sostenere che per sfuggire alla rappresentazione della pluralità le megastrutture contemporanee debbano semplicemente rendere mobili i loro contenitori. L'intenzione invece è invitare a reinvestire nel dibattito sulla politica della pluralità invece che riappropriarsi di forme vuote del tardo Modernismo. Siamo franchi: le megastrutture costruite degli anni Sessanta non furono mai all'altezza delle loro intenzioni nell'individuare nuove forme organizzative per un nuovo tipo di utenti. Oggi che gli architetti-urbanisti tornano ad acquisire peso nella sfera urbana, non facciamoci imprigionare dal nostro stesso progetto formale e riesaminiamo invece il rapporto tra forma e pluralità. Senza un tale progetto politico restiamo solo un coacervo di persone senza relazioni nello spazio che un tempo veniva chiamato città. Oggi che forse abbiamo bisogno di una rivoluzione siamo ancora capaci di costruirne una?

1. Anna Arendt, Vita activa. La condizione umana, trad. it. di Sergio Finzi, Milano, Bompiani, 1964, p. 183 (corsivi miei).
2. Ibid., p. 82.

Neeraj Bhatia è uno dei direttori dell' InfraNet Lab , collettivo di ricerca senza fini di lucro che analizza i sottoprodotti spaziali delle risorse logistiche contemporanee. È anche fondatore di Open Workshop, studio di progettazione che analizza il programma della pluralità attraverso il progetto dell'apertura. Ha insegnato all'università di Waterloo e all'università di Toronto, ed è oggi titolare della cattedra Wortham presso la Rice University. È tra i curatori dei volumi Arium: Weather + Architecture (con Jürgen Mayer H., Hatje Cantz, 2009), Bracket 2: On Soft Systems (con Lola Sheppard, Actar, 2011). È coautore di Pamphlet Architecture 30: Coupling (Princeton Architectural Press, 2010).

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