Mostrare l'architettura: un paradosso?

Il convegno “Exhibiting Architecture: A Paradox?” che si è tenuto alla Yale School of Architecture a visto una serie di dibattiti che hanno analizzato le apparenti contraddizioni dell'esporre l'architettura.

“Non costruisco perché sono un architetto. Riesco a fare vera Architettura perché non costruisco.”
Léon Krier

Léon Krier, da figlio del suo tempo, ha capito il potere dell’architettura di carta nella diffusione del suo linguaggio architettonico. Come mezzo per negare la portata dell’architettura modernista privilegia l’arte del disegnare rispetto a quella del costruire. Oggi potrebbe invece pensare di dedicarsi a ideare mostre, come strumento possibile per abbozzare alcune delle sue visioni urbanistiche. E indubbiamente la mostra è un altro degli ambienti che permettono la sperimentazione.

La curatela è diventata un punto critico tanto nella diffusione della cultura architettonica quanto nella stessa elaborazione dell’architettura. Il panorama della pratica espositiva dell’architettura – dalle installazioni immersive che suggeriscono nuove qualità estetiche e nuove esperienze spaziali alle grandi biennali che si espandono effimere nel tessuto urbano, agli incarichi di nuovi padiglioni, alle mostre a tema e alle rassegne storiche tradizionalmente risolte esponendo modelli e disegni – si estende fino all’orizzonte in ogni direzione. La sempre più corposa curatela d’architettura, intesa come pratica professionale ma anche come campo di ricerca, pare aver ottenuto l’investitura della legittimazione professionale. In una recente intervista Sylvia Lavin sostiene l’esigenza di ufficializzare la competenza curatoriale perché considera le mostre uno strumento che si è ampliato fino a diventare una “metadisciplina in cui il curatore diventa un direttore d’orchestra”. [1]

Il convegno Exhibiting Architecture: A Paradox?, svoltosi lo scorso ottobre alla Yale School of Architecture, comprendeva un ciclo di tavole rotonde miranti a sciogliere alcune delle apparenti contraddizioni dell’esporre l’architettura e a esplorare nuove prospettive dell’attività del curatore. Benché il titolo suggerisca il vecchio assioma paradossale che le mostre d’architettura sono per la maggior parte mostre di rappresentazioni dell’architettura più che dell’architettura stessa, il convegno (organizzato in collaborazione da Carson Chan, David Andrew Tasman ed Eeva-Liisa Pelkonen) ruotava intorno a queste domande: come può l’architettura promuovere la mostra in quanto linguaggio espressivo e, a loro volta, come possono le mostre spingere architetti e curatori a ridefinire la disciplina? Quali discorsi estetici, sociopolitici ed ecologici si incrociano con la curatela? Le mostre devono promuovere l’autonomia dell’architettura o invece i curatori devono usare le mostre come una pratica sociale?

Al centro dell’attenzione c’erano alcune delle classiche mostre del XX secolo, tra cui Modern Architecture: International Exhibition del MoMA nel 1932, How to play the environment game di Theo Crosby del 1973 e la prima Biennale Architettura di Venezia del 1980: La presenza del passato. Questi punti fermi della storia delle mostre d’architettura facevano da cornice ai dibattiti di un’indagine più vasta, che ricostruiva l’eredità delle meno imponenti mostre dell’architettura radicale nell’arco del XX secolo. Il convegno, organizzato intorno a quattro sessioni principali sostenute da contemporanei dibattiti, ha cercato di analizzare i temi della “mostra come tecnica espressiva”, dell’“ambiente immersivo”, del “luogo di incontro pubblico” e delle “iniziative curatoriali” postbelliche.

Dopo tutto la storia della curatela d’architettura prova che la mostra offre ancora il linguaggio espressivo più pertinente attraverso il quale attuare strategie sociali e politiche

Al centro di numerose conversazioni c’è stato il recente intervento diretto dell’architettura nello spazio del museo, mentre contemporaneamente il museo ha iniziato a integrare nuove attività come parte di una più ampia strategia curatoriale.

Per gli architetti lo spazio espositivo può rappresentare qualcosa di più di un modo di accedere alla professione, e anzi, un’attività professionale in se stessa. Il museo, come contenitore privilegiato, offre uno spazio sperimentale adattabile, difficilmente limitato da vincoli come il sito e il contesto. L’architetto francese Philippe Rahm – invitato ad aprire gli interventi – ha presentato un’affascinante disamina dei modi in cui gli architetti possono usare la sala d’esposizione – il cubo atmosferico – come luogo di una funzione che non si può esplicare facilmente altrove. La collaborazione di Rahm con musei e istituzioni culturali ha visto nascere attraverso il linguaggio dell’esposizione alcuni dei suoi progetti più sperimentali.

Per quanto riguarda i musei questi interventi architettonici sono un segnale dell’interesse delle istituzioni nella creazione di nuove forme di spazio pubblico. Attraverso gli incarichi, i casi del BMW Guggenheim Lab e dello Young Architects Program del MoMA PS1 sono l’esempio di alcuni tra i progetti più recenti elaborati per stimolare la creatività dell’architettura. Parallelamente sono anche la testimonianza della trasformazione del ruolo del curatore, che funge da committente e da promotore oltre che da architetto e da urbanista. E tuttavia il carattere effimero di queste installazioni mette in discussione la natura del linguaggio espositivo e il rapporto tra la realtà e la rappresentazione degli oggetti costruiti in loco. Resta la domanda: quale ricaduta hanno questi interventi sulle forme tradizionali della pratica architettonica?

La curatela è di fatto diventata una disciplina aperta a una varietà di piattaforme, di strategie, di contesti e di attori

L’architetto Joel Sanders, commentando come moderatore la tavola rotonda sui “Luoghi di incontro pubblico” ha posto la questione dell’autonomia dell’architettura. Sanders, alla luce di vari interventi che analizzavano le scelte curatoriali d’avanguardia – talvolta discusse – degli anni del dopoguerra, ha messo in questione l’efficacia di alcuni dei suddetti sviluppi contemporanei in relazione alla sfida allo status quo. “Sono in grado le mostre di sfidare le istituzioni culturali e politiche di cui sono parte integrante? In altre parole: i curatori possono mordere la mano che li nutre?” Guardando alla passata età dell’oro dell’impegno sociale, Sanders ha sostenuto che oggi i curatori “agiscono in una forma più sommessa e pragmatica di impegno sociale, elaborando gesti curatoriali più concreti e mirati alle soluzioni pratiche”.

Di fronte a una realtà insoddisfacente – preoccupazioni politiche ed ecologiche, cambiamento climatico e recessione economica mondiale – certamente pare che la comunità dell’architettura risponda con la ricerca di un nuovo punto d’appoggio ideologico e con terreni professionali alternativi. Dopo tutto la storia della curatela d’architettura prova che la mostra – per paradossale che sia – offre ancora il linguaggio espressivo più pertinente attraverso il quale attuare strategie sociali e politiche. In quanto piattaforma pubblica di dialogo e di propaganda la mostra trova eco tanto nelle comunità degli architetti quanto nei più ampi strati della società. Se il regime spettatoriale del museo è in definitiva il fondamento del tradizionale rapporto spaziale tra visitatore e oggetto, la prassi del curatore può oltrepassare questi confini e andare in cerca di spazi diversi di disobbedienza civile.

È mancato tuttavia al dibattito il riferimento all’idea degli oggetti d’archivio e di collezione, e del loro intrinseco rapporto con la curatela. Molte istituzioni, acquisendo e conservando con continuità opere d’architettura e diffondendone la conoscenza, hanno la responsabilità di interpretare questi materiali attraverso un molteplicità di letture che trova eco nel discorso contemporaneo e vi contribuisce.

Forse è solo da poco che gli attori di questa ampia scena possono adottare la legittimazione di curatore come una disciplina dotata di professionalità e di storia sue proprie. Si fa, si insegna e si diffonde una ricerca accademica, mentre storici, curatori e architetti militanti si incontrano per riflettere su certi sviluppi contemporanei. Questo convegno serve a ricordare che la curatela è di fatto diventata una disciplina aperta a una varietà di piattaforme, di strategie, di contesti e di attori. L’ubiquità delle mostre d’architettura ha certamente rafforzato il ruolo di che le fa: il curatore. Ma, se si osserva più da vicino, la professione del curatore come spazio di ricerca, di sperimentazione e di critica offre una base contemporanea all’architettura che forse altre piattaforme –  non l’editoria, ma nemmeno la costruzione – sono più in grado di offrire.

Oggi che numerose istituzioni (tra cui, presenti alle tavole rotonde, la Biennale Architettura di Venezia, lo Storefront for Art and Architecture e il Canadian Centre for Architecture) hanno raggiunto il trentesimo compleanno e hanno intrapreso un processo di riflessione su se stesse attraverso la loro storia istituzionale, ci si chiede quali saranno le strategie curatoriali che daranno forma agli anni a venire. A mano a mano che crescono di importanza saranno in grado queste istituzioni di proseguire nel trasferire la loro attenzione dall’oggetto all’ideologia?


1. Pippo Ciorra, “In conversation with Sylvia Lavin”, Sci-Arc Media Archive, 31 maggio 2013.

 

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