Si cerca spesso di analizzare il presente tramite categorie o raggruppamenti: scatole; questo, paradossalmente, è tanto più vero in un campo che, come l'arte contemporanea, si fregia della sua irriducibile complessità, della resistenza strutturale che oppone alla classificazione. Ciononostante si classifica, o almeno ci si prova: in questo senso, il tentativo più rilevante degli ultimi tempi usa come principio organizzatore il concetto di storicismo, l'interesse mostrato da artisti e curatori per gli archivi, la storiografia, i documenti, i reperti, le tracce, le macerie, il passato.
È un fenomeno (un movimento?) troppo diffuso e sfilacciato, e troppo ricco, per poterlo identificare chiaramente: ma accomuna artisti che vanno da Joachim Koester a Dominique Gonzalez-Foerster, da Walid Raad a Zoe Leonard, da Danh Vo a Peter Friedl, da Haris Epaminonda a Robert Kusmirowski, ed è al cuore di mostre come "Archive Fever", l'anno scorso all'ICA New York, o "Modernism as a Ruin: an Archaeology of the Present" alla Generali Foundation di Vienna. Artisti e curatori, senza più limitarsi a usare la storia come fonte d'ispirazione, la adibiscono a repertorio di contenuti e contesto della propria attività, facendo quindi della storiografia e dell'archivio (che della storia sono la veste sensibile) il principio formale del proprio lavoro.
Re-enactment e riallestimento di ambienti storici, cataloghi di documenti ed esibizioni di reperti in teche museali – lo scopo di questa gamma di pratiche è chiaro: in un'epoca in cui la moltiplicazione dell'informazione ne facilita, paradossalmente, la sparizione nello sfondo, il ruolo dell'artista può diventare quello di supplire alla storia ufficiale mostrando ciò che essa non svela o nasconde. Sono pratiche a metà strada fra l'objet trouvé e la critica istituzionale: un museo (o qualcosa di simile) viene ricreato in un altro contesto, dirottando l'arte contemporanea per veicolare un'informazione in nome di una sorta di giustizia storico-politica, per "dare la voce ai vinti", per fare fuori dal museo ciò che il museo, per svariate ragioni, trascura di fare. Questo è anche, al contempo, un passo di modestia, per cui l'artista, da ipotetico creatore, si costituisce invece a selezionatore di un frammento di passato che offre, filtrato dalla sua estetica, al pubblico.
Ma che cosa significa, esattamente, questo desiderio di scavare nel passato – seppur non in cerca di una qualche forma di origine o radice, atteggiamento legato all'universalismo modernista, ma per scovare brandelli di significato, buchi nella maglia della narrazione ufficiale, episodi? È possibile vedere in questa tendenza – benché, certo, feconda – almeno un paio di problemi. Il primo è legato a una questione di comodità: è ben difficile vedere il proprio lavoro artistico ignorato, o criticato, se questo si limita a voler "portare l'attenzione" su un evento storico di oggettiva importanza, e precedentemente poco noto. Da questo punto di vista, l'atteggiamento storiografico rischia di essere una giustificazione extra-artistica, un'appropriazione di merito: una sorta di alibi.
Ma soprattutto – come sottolinea il critico Dieter Roelstraete nell'articolo su e-flux journal che ha dato il via a questo dibattito – lavorare sul passato (sulle sue ingiustizie, sulle sue omissioni, sulle sue menzogne) è un progetto la cui legittimità pare esimere chi lo compie dal compito di immaginare un futuro. C'è il rischio che ogni sforzo in più per edificare un archivio – per importante che sia ciò che esso andrà a ospitare – sia uno sforzo in meno per costruire ciò che potrà, un giorno, riempirlo.
Vincenzo Latronico
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- Vincenzo Latronico
- 03 dicembre 2010