Riccardo Paradisi

I mostri di Ostia, le ceneri di Pasolini

Da Pier Paolo Pasolini, profeta del disincanto delle borgate, alla condizione di regresso cui assistiamo oggi in certe periferie. Una riflessione sul territorio italiano.

Pasolini nella periferia romana in un servizio degli anni Cinquanta

“Quel che va difeso è il territorio nella sua interezza. Vale un muretto, vale una loggia, vale un tabernacolo, vale un casale agricolo. Ci sono casali stupendi che dovrebbero essere difesi come una chiesa o come un castello. Ma la gente non vuol saperne: hanno perduto il senso della bellezza e dei valori. Tutto è in balìa della speculazione”. Pier Paolo Pasolini pronunciava queste parole, in un’intervista al Messaggero, nel 1974, pochi mesi prima di essere ammazzato, a bastonate, all’idroscalo di Ostia. Erano anni in cui la percezione del mostruoso paesaggistico e antropologico che cominciava a divorare il paese produceva ancora allarme e dolore morale, la consapevolezza che il degrado urbanistico andasse congiunto alla decadenza civile e sociale. 

A distanza di quarant’anni, ora che lo scempio è ovunque compiuto, le parole di Pasolini prima d’apparire profetiche appaiono patetiche come solo possono esserle quelle d’un poeta rispetto all’assuefazione di massa al “mostruoso”, come lui chiamava l’oscuramento culturale che stava calando sul paese consegnandolo all’informe e alla distruzione paesaggistica. Distruzione inaudita per il valore di irripetibile identità del paesaggio italiano, del suo essere “un pittoresco storicizzato assurto a fisionomia stessa del paese”, come ricordava Cesare Brandi, denunciando già negli anni Sessanta l’inizio della catastrofe ambientale e dunque civile di un paese passato dalle privazioni del dopoguerra alla bulimia del boom economico.

Il regresso civile e urbanistico di Ostia è la parte che racconta il tutto, paradigma della compiuta metamorfosi d’ogni periferia trasformata in controcittà.

Oggi, prima d’essere il luogo dove un giornalista può essere massacrato a favore di telecamere da un capo-clan locale, Ostia è una città stuprata da una predazione edilizia e commerciale feroce che ha cancellato allo sguardo il mare, blindato la spiaggia entro chilometri di cancellate, magnetizzato l’economia e la politica locale in un dilagare di corruzioni, commistioni e complicità che hanno consegnato migliaia di cittadini all’influenza o addirittura all’arbitrio di specifici poteri criminali organizzati in clan tribali. Ma il regresso civile e urbanistico di Ostia è la parte che racconta il tutto, è cioè il paradigma della compiuta metamorfosi d’ogni periferia trasformata in controcittà, non-luogo esteso e paesaggio interiore; divenuta per dirla con la sintesi di Brantinghams, “quarta dimensione del delitto” dopo la legge violata, l’atto criminale e la vittima offesa.

Le periferie metropolitane – Ostia è un esteso allegato urbano di Roma - sono divenute il laboratorio politico del quinto stato, della dimensione deviante organizzata per il controllo del territorio e ormai dotata di una sua propria “coscienza di classe” e di una sua egemonia culturale. Le gesta vedute nelle serie tv di Gomorra o Suburra, di Romanzo Criminale sono in questi anni divenute lo spartito epicizzante d’una delinquenza che si fa controcultura e contropotere territoriale e che ritiene la periferia ormai liberata dalla città terra di predazione e spavaldo teatro d’esibizione. Rispetto a questa nuova leva di devianza il sottoproletariato urbano della periferia pasoliniana appare quasi contrassegnato di un’aura romantica. Anche perché nelle borgate, nelle periferie storiche sopravvissute fino ai primissimi anni Ottanta le diseguaglianze venivano ancora elaborate tramite un’utopia di cambiamento, di nuova società, di riscatto sociale e culturale.

Pasolini, è vero, è stato il profeta del loro disincanto ma le periferie non erano ancora, fino agli inoltrati Settanta, il luogo della disperazione. Lo diventeranno dal decennio successivo e via via sempre di più fino ad oggi, dove dei vecchi legami solidali – che avevano spinto Pasolini a rintracciarvi orme di arcaismo premoderno – sono stati cinerizzati dal mostruoso di cui diceva il poeta friulano: un individualismo preminente che libero dalla guaina di residua legalità che contiene ancora la società riconosciuta è esploso con violenza espansiva presentando il conto della distruzione di idea di città, la separazione sempre più radicale tra centro e periferia fino al punto in cui il centro stesso della città è divenuto non luogo, spazio di intrattenimento turistico o di rappresentanza. A dimostrazione che “quel che va difeso è il territorio nella sua interezza”.

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