Gabriele Niola

Benvenuti a Neo-Tokyo, la più importante città dove non siete mai stati

Insieme ad Akira, la megalopoli verticale sta tornando. Questa città immaginaria ha ispirato il nostro presente e oggi sembra così reale che non sapremmo immaginarla di nuovo.  

Il 2019 è l’anno di Akira: è stato annunciato finalmente che l’adattamento americano in live action si farà (uscita prevista 2021) e lo stesso autore del manga e del film da esso tratto, Katsuhiro Otomo, ha annunciato un nuovo progetto animato di Akira che non sarà un sequel. E del resto il 2019 è anche l’anno in cui è ambientata la storia di Akira. Di certo, qualsiasi cosa avvenga, ci sarà Neo Tokyo (o quel che ad un certo punto ne rimane) uno dei simboli più potenti del film del 1988, una città densissima nata tutta insieme dalla ricostruzione di Tokyo dopo lo scoppio di una bomba nucleare (che in realtà si scoprirà essere stato ben altro).

Neo Tokyo assieme alla Los Angeles di Blade Runner, la Washington di Minority Report e anche la Galactic City di Coruscant in Guerre stellari è uno degli esempi più noti e brillanti di città del futuro, capace di influenzare moltissimo altri film al pari della realtà, come è evidente dallo stile con cui si sono sviluppate molte città opulente dell’area del Golfo Persico (Dubai su tutte). Sono metropoli figlie di Metropolis, il noto film di Fritz Lang del 1927, e della sua idea di distopia (a sua volta figlia di un viaggio nella New York post prima guerra mondiale). L’idea era che lo sviluppo verticale poteva servire a mostrare la differenza tra classi sociali di un futuro terribile in cui la posizione occupata nella scalata al cielo è metafora dello status: la massa in basso, l’élite in alto. A furia di migliorie e sempre maggior precisione, di film in film, quel modello di città è diventato per decenni la nostra idea di futuro: la megalopoli verticale. Tanto che ad oggi la stessa Tokyo non è molto diversa dalla Neo Tokyo di Akira.

Eppure recentemente le città del futuro del cinema hanno iniziato a mutare. La fantascienza è sempre la proiezione delle nostre ansie riguardo il presente e quindi delle fobie su dove andremo a finire, e le città del futuro stanno cambiando perché è cambiata l’aspettativa che abbiamo riguardo il nostro domani: non più il grande accumulo ma la grande perdita.

Blade Runner
Blade Runner, regia di Ridley Scott

Il modello verticale

Neo Tokyo è forse la città più direttamente collegata a Metropolis: è organizzata come Manhattan, è un’isola collegata alla terraferma da una serie di ponti sulla quale si è concentrata la vita, scoppia di persone ed è caratterizzata da luci e grattacieli. Come una gigantesca Times Square ad ogni angolo propone qualcosa di aggressivo, i suoi vicoli sono strettissimi e solo le autostrade sembrano dare respiro (anche se poi è il posto in cui si muore più facilmente). Una città sorta da zero, solo nuova e per questo diversa dalla Los Angeles di Ridley Scott, l’altro grande modello verticalista dei nostri anni.

Blade Runner aveva infatti avuto un’intuizione molto più realista, la verticalità delle città la voleva esplorare partendo dal basso e Syd Mead (il suo designer) aveva capito che qualsiasi cosa ci avesse riservato il futuro non avrebbe di certo spazzato via il passato. Così nella sua città convivono il nuovissimo e il vecchio, palazzi simili a piramidi Maya e il Bradbury Building.

L’ultimo stadio dell’evoluzione di questa idea verticalista lo si può trovare in film di pochi anni fa come Elysium o in Alita: Battle Angel, ed è la città nel cielo. Un luogo distante e separato dalla Terra in cui vive l’élite. I poveri invece abitano la terraferma, una gigantesca e piatta periferia fatta di poveri che sognano di arrivare al cielo. In quel caso la metafora con il paradiso è evidente (letterale per Elysium) ma il principio è lo stesso: la forma, la posizione e la grandezza dei palazzi serve a parlare della dimensione del potere di chi li abita e in quel caso l’élite è come un Dio sopra il resto dell’umanità.

Quest’idea come detto ha poi preso forma più che altro nelle metropoli del golfo e Syd Mead stesso ha detto di Dubai:Il medioriente è un esempio fantastico di come la realtà stia raggiungendo la fantascienza, come la grandezza, la visione e le proporzioni di alcuni dei progetti di questa regione mostrano. Mi piacerebbe far parte dell’orizzonte di questa regione e aiutare a dargli forma per un domani migliore”.

Alita
Alita, regia di Robert Rodriguez

Per un domani migliore... Eppure la fantascienza che ispira queste architettura raramente parla di domani migliori. Le città del futuro che stiamo imitando sono ingiuste, cattive, aggressive e disumane. La Everytown di Vita Futura (tratto da The Shape Of Things To Come di H. G. Wells) o la città del più recente Tomorrowland sono utopie rarissime, solitamente invece sia la povertà, la sporcizia e la divisione tra élite e popolo, che invece l’eccessiva pulizia e sobrietà (si pensi a Demolition Man) sono sintomo di un futuro in cui tutto è andato male in una folle corsa all’accumulo e alla densità.

Il modello pauperista orizzontale

E proprio questa corsa all’accumulo non occupa più il nostro immaginario o la nostra idea di futuro.

Chiusa la parabola ascendente dell’Occidente e rassegnati ad uno stato dimesso di continua crisi e di impoverimento generale, le immagini di città future che il cinema ha promosso e mostrato dal 2000 in poi hanno cominciato ad essere sempre meno verticali e sempre più piatte, sempre meno opulente e sempre più dimesse, sempre meno abitate e sempre più vuote.

Hunger Games
Hunger Games, regia di Gary Ross

In Hunger Games i molti distretti americani sono paesi di provincia poveri e anche l’unica vera grande megalopoli dei ricchi, Panem, mostra un’architettura alla europea, da regime anni ‘30, rivista e corretta per sembrare futura. Pochi grattacieli e non molto alti, palazzi razionalisti se non proprio gigantesche versioni del Reichstag. Sono centri sicuramente monumentali certamente ma mai densi.

Se già nel 2001 Minority Report, dopo due ore passate in una metropoli che scoppia di gente, finiva con un alito di speranza per un nuovo futuro in una baracca di legno in mezzo al bosco, i nuovi film di fantascienza che si rivolgono ad un pubblico più giovane parlano sempre di città dimesse e di un’umanità dimezzata.

In Divergent la Chicago di oggi (quindi piena di grattacieli) è distrutta, abbandonata, semi-disabitata, è praticamente un cadavere. In quella distopia gli esseri umani vengono selezionati da giovani e gli viene assegnata una posizione, non si è liberi di essere chi si vuole, ci sono tecnologie avanzate ma la vita non è condotta nell’opulenza, un cataclisma ci ha decimato. Lo stesso avviene in Maze Runner dove in maniera più letterale gran parte della vita si svolge nel deserto, e ancora il ritorno di Mad Max con Fury Road (che affonda le radici della sua idea distopico-desertica nella crisi petrolifera degli anni ‘70) ha rimesso al centro di tutto la scarsità delle risorse, la vastità del niente in cui scappare.

Addirittura anche un film abbastanza dimenticabile come Equals (del 2015) aveva una gran visione urbana fatta di forme lisce ed essenziali, un razionalismo stondato in cui si muovono però pochissime persone e, cosa ancora più importante e coerente con queste nuove visioni: tutte uguali.

Divergent
Divergent, regia di Neil Burger

Il modello gentrificato

Tuttavia la visione più concreta e completa di una nuova idea di futuro, più adatta ai mutamenti dei nostri anni e delle nostre città, l’ha fornita Lei, il film di Spike Jonze.

In quella città senza nome che fonde elementi di Shanghai e Los Angeles non ci sono auto, ci sono poche persone, c’è qualche grattacielo ma anche molto verde e un generale senso di vuoto e gentrificazione. Tutti bianchi, tutti benestanti, poche cartine per strada ma anche poca differenza sociale, un’unica grande classe bianca medio borghese che vive in appartamento, così sola da necessitare che qualcuno scriva su commissione biglietti di auguri (è il lavoro del protagonista).

Tutto è efficiente e ben organizzato come nelle città asiatiche più evolute ma, a differenza di quelle giapponesi e di New York (il modello per la vecchia città del futuro), qui sembra esserci molto spazio per ognuno.

Come sempre non è proprio bellissimo, è uno scenario che parla di solitudine tanto quanto lo faceva quello più vecchio e classico fondato sulla sovrappopolazione. In Lei tutti sembrano solo abitare una città che non appartiene a nessuno, nessuno pare cittadino di questa metropoli moderna, come se nessuno ci fosse nato e tutti ci fossero arrivati a lavorare, il massimo della gentrificazione per l’appunto, il mutamento urbano che più caratterizza i grandi centri dei nostri anni.

Her
Lei, regia di Spike Jonze

Se le vecchie città del futuro sono costruite come simbolo della disuguaglianza sociale, quelle nuove distrutte o moderne, sempre mezze vuote, sono dominate da una sola classe di persone. Qualche volta c’è un dittatore o un’oligarchia di potenti ma non è quasi mai una questione di classe e di guadagno. Non c’è un popolo che macina nel buio per l’elite, siamo tutti una finta élite. La paura che le città future dei film più moderni stanno iniziando a rappresentare è quindi quella della perdità di identità delle persone che le abitano, tutte uguali, tutte mediamente soddisfatte quando in realtà non lo sono. Anche nei casi migliori un design urbano hipster e tollerante sembra aver accomodato tutti senza soddisfare nessuno.

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