Con una semplificazione probabilmente scorretta, anche se abbastanza efficace, si potrebbe sostenere che l'architettura è fatta di due parti uguali.
La prima metà riguarda ciò che è stabile, che dura nel tempo, che esprime significati capaci di conservare a lungo la loro validità. A questa parte corrispondono saperi architettonici consolidati, accompagnati da modalità operative note e condivise, di cui si sono accertate la coerenza e l'affidabilità. Si tratta di modalità che non escludono comunque la sperimentazione del nuovo, anche se si tratta di un nuovo capace di trarre dal passato il mistero che questo sa esprimere.

La seconda è, al contrario, polarizzata sull'attualità, su ciò che è mutevole ed effimero, sul flusso degli eventi e delle informazioni. Data la sua natura movimentista, questa seconda metà non dispone di saperi e di modalità operative. In qualche modo essa serve alla prima perché questa si destabilizzi, perché si decostruisca, perché liberi le contraddizioni che da sola terrebbe nascoste, contraddizioni che la rendono più consapevole di se stessa e delle proprie risorse. Nello stesso tempo la seconda parte usa la durata per selezionare ciò che è significativo dal semplice rumore di fondo della contemporaneità. In questo senso le parti non sono in opposizione ma si rivelano complementari.

Per tutto il Novecento le due parti sono riuscite a creare tra di loro un equilibrio, seppure instabile, una dialettica conoscitiva e creativa che ha dato risultati esemplari. A partire da Le Corbusier, Walter Gropius, Mies van der Rohe e Frank Lloyd Wright, la maggioranza degli architetti è riuscita a conferire alle proprie opere una duplice polarità. In effetti quasi tutti gli edifici moderni, anche quelli più apparentemente estranei al contesto, sono fortemente radicati nel momento storico nel quale hanno visto la luce e nel luogo nel quale sorgono, affermando al contempo il possesso di una dimensione ulteriore, che li collega a quel nucleo di problemi architettonici che si trasmettono pressoché invariati epoca dopo epoca.

Da qualche anno, però, le cose sono cambiate. L'architettura ha dimenticato la propria metà durevole, riducendosi al solo presente.
È prevalsa la volontà di concepire l'impegno progettuale come la pura trascrizione di ciò che sta accadendo, come la rappresentazione estrema dell'istantaneità, come comunicazione.

Facendosi sismografo, come ricordava qualche anno fa Hans Hollein, l'architetto sembra aver scordato la lontananza dalla quale provengono i segnali che vuole decifrare. Superando di fatto le stesse avanguardie, che un secolo fa teorizzavano la tabula rasa nei confronti della durata – anche se la cancellazione di ciò che era stabile non avvenne perché le avanguardie stesse in realtà non la volevano – molti architetti tendono oggi a identificare la realtà solo con ciò che sta succedendo nel momento in cui essi stanno operando.
Lo schiacciamento sul presente che ne deriva, come ne Il mondo è piatto di Thomas Friedman, sottrae all'architettura gran parte della sua essenza. Toglie a essa la memoria, il senso del luogo e, paradossalmente, la capacità di vedere i non luoghi. Cancella soprattutto la visione di dove si vuole andare. Per questo chi scrive si augura che gli architetti tornino a riconsiderare la decisione di dimenticare tutto ciò che è la presenza della durata per un discutibile attimo fuggente.

Franco Purini
Architetto