La nuova normalità di Venice, Los Angeles

Fondata come città indipendente a inizio del secolo scorso, oggi è uno dei quartieri più atipici di Los Angeles. Epicentro creativo fin dalla Beat Generation, il lockdown è l'occasione per sognarla migliore: più canali, piccoli orti, meno proprietà privata. 

Sto passando la quarantena in un paradiso paradossale, senza potere accedere alla spiaggia, senza poter decidere in quale ristorante o bar andare, o a quale evento partecipare. Finalmente le mie orecchie non vengono più disturbate dal rombo dei motorini in strada, e nessun turista cerca di spiare dentro al mio open space. Tutto è tranquillo, e passo le giornate con le persone a me più care: cuciniamo, riordiniamo la casa, seguiamo lezioni di yoga su Zoom e giochiamo a carte per non cedere alla tentazione di guardare il telegiornale.

Cosa c’è di meglio? Mi mancano le mille distrazioni della città? Mi manca la vita pubblica? Mi manca poter vivere liberamente la città? Mi manca lo spazio pubblico?

Per citare a grandi linee un altro abitante di Venice Beach, Charles Eames sosteneva che lo spazio pubblico fosse lo spazio privato a cui rinunciamo per poterlo condividere con gli altri. Un tempo, Venice è stata una città a sé stante – dal 1905 fino al 1926, anno in cui venne incorporata da Los Angeles. Venice e la sorella maggiore Los Angeles sono sempre state città private, metropoli alternative la cui atmosfera e immagine sono rappresentate dal loro spazio e carattere privati.

Osservando la città da un qualsiasi punto sopraelevato, pochissimi edifici oltre ai grattacieli del Downtown si ergono sopra gli alberi e i giardini privati. A terra, le strade vengono definite dall’articolazione della privacy così come è espressa dagli innumerevoli stili ed espressioni dei suoi abitanti. In questo buffet architettonico di piatti esotici messi uno accanto all’altro, Venice si distingue in quanto esperimento di urbanistica e di gestualità urbana.

Venice Beach, LA. Foto Marco Gallico

Venice Beach fu costruita intorno al 1900. Il suo fondatore, Abbot Kinney, un ricco imprenditore del tabacco che aveva un debole per l’architettura europea, sognava una replica di Venezia che potesse offrire divertimenti e servizi pubblici ai Pasadinesi e ai residenti del centro città, stanchi di essere relegati nell’entroterra. Il molo di Venice era servito da un tram elettrico e altri veicoli elettrici leggeri che facevano la spola tra la spiaggia, il lungomare e le altre attrazioni turistiche. Lo sviluppo urbano non è stato lasciato in mano a imprenditori spericolati che puntassero a tirare su soldi facili vendendo villette. Al contrario, Abbot Kinney voleva utilizzare canali, strade pedonali, vicoli e ferrovie per offrire un ambiente urbano a media densità che fosse a bassa quota, ben differenziato, e facilmente percorribile a piedi. La maggior parte di questi elementi sono qui ancora oggi, anche se parzialmente amputati: oggi Venice Beach è un’enclave pedonale bike-friendly, tanto ambita quanto costosa.

La gentrificazione ha causato la maggior parte dei danni in questi ultimi anni, creando un’uniformità calcolata attraverso un’architettura immobiliare che punta unicamente al rendimento finanziario. Al mio arrivo, nei primi anni ’90, la città era piena di bande rivali, drogati e prostitute sulla Lincoln Blvd che si mescolavano alla classe operaiam ai progettisti e agli artisti che vivevano nei piccoli bungalow e nelle modeste casette sulla spiaggia. Tutto questo è stato sostituito da numerose villette fatte con lo stampino, tanto moderne quanto private, che soddisfanno i mille desideri dei millennials che le abitano: ci sono vasche idromassaggio sui tetti, cucine all’avanguardia, tantissimi bagni, stazioni di toelettatura per cani in miniatura, pozzi antincendio di design, scale in vetro trasparente e garage per parcheggiare le Tesla. Eppure, oggi Venice conserva ancora un po’ del suo fascino originario: ogni anno viene presa d’assalto da orde di turisti che riescono ancora a scorgere i resti della sua antica esuberanza urbanistica.

Koreatown. Foto Marco Gallico

 Più penso al ritorno alla normalità, più fantastico sulla città che è stata, e sul fatto che il suo nuovo inizio potrebbe cambiare alcune delle odiose abitudini del passato. Si potrebbero costruire più canali per rallentare il traffico dei pendolari evitando le autostrade congestionate. Si potrebbero creare delle strade a senso unico, o addirittura creare delle strade a senso unico senza marciapiedi e a lento scorrimento. Si potrebbero convertire i garage in piccole case per creare una maggiore densità residenziale. Si potrebbero aprire più ristoranti e bar all’aperto per aumentare gli spazi di incontro. Si potrebbero creare più teatri e locali di musica live per rendere questi spazi privati un po’ più pubblici. Si potrebbero creare più alloggi pubblici. Si potrebbe pensare a un servizio di consegna locale in bicicletta. Si potrebbe pensare di condividere i nostri spazi privati per coltivare frutta e verdura con l’ausilio di piccoli animali produttivi.

Sono abbastanza convinto che tutto questo rimarrà una mia fantasia. Quando arriverà il momento di tornare alla nuova normalità (mentre noi premiamo per tornare a quella vecchia), io spero che potremo tornare a una normalità ancora più vecchia, in cui potremo rinunciare a un po’ della nostra privatezza per creare qualcosa di più pubblico.

Mark Mack, professore emerito all’UCLA, e architetto presso MACK Architect(s). Residente a Venice Beach, il suo progetto musicale è DJOrangela
Marco Gallico è un fotografo italiano che vive e lavora a Los Angeles: durante il lockdown ha fotografato la città e questi sono alcuni dei suoi scatti.

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