Nei film di Wes Anderson, l’unica verità è il design degli oggetti

Il cinema di Wes Anderson è un universo costruito da oggetti impossibili, abitato da personaggi-illustrazione e popolato di macchine e arredi che sembrano usciti da un cartone animato. In questo mondo, la realtà non viene rappresentata: viene disegnata.

Il primo vero grande oggetto memorabile della filmografia di Wes Anderson è il sottomarino di Le avventure acquatiche di Steve Zissou. Non che prima non ci fossero oggetti nei suoi film che potessero esistere solo nel suo universo, come valigie, libri, scrivanie o (sempre) piatti portatili per ascoltare dischi, ma quel sottomarino è il primo vero oggetto impossibile, privo di senso se non in un mondo di fantasia. Quel film per la prima volta trasportava il mondo simmetrico e sempre intonato di Wes Anderson nel fantastico. La storia di un oceanografo e documentarista, di suo figlio e della famiglia di collaboratori che lavora con lui, era piena di animali inesistenti, osservati da imbarcazioni che sfidano le leggi della fisica del nostro mondo. Era il primo cartone animato di Wes Anderson.

Wes Anderson, La trama fenicia, 2025

Da lì in poi ha realizzato film effettivamente d’animazione, e poi film dal vero con livelli crescenti di irrealismo. Ogni volta aumentando il numero di oggetti rappresentati. Già in Moonrise Kingdom ci sono inquadrature solo su libri o oggetti dei protagonisti, in cui questi sono i protagonisti dell’immagine, mostrati uno dopo l’altro, perché ci raccontano il loro mondo tanto quanto, fino a quel momento, lo avevano fatto gli abiti e l’arredamento. Ma erano ancora oggetti reali o verosimili. Poi è accaduto qualcosa. A partire da The Grand Budapest Hotel l’esperienza nell’animazione ha cominciato a modificare anche i film con attori: questi si muovono, compaiono nelle inquadrature e le attraversano come personaggi animati (per esempio può capitare che spunti all’improvviso solo una testa da dietro una porta); anche il trucco, le acconciature e i costumi cominciano a non essere solo particolari ma proprio usciti da un cartone. E gli oggetti di conseguenza hanno cominciato a farsi impossibili, che poi è un altro modo per dire “disegnati appositamente”.

Wes Anderson, L’isola dei cani, 2018

La trama fenicia, appena presentato a Cannes, come avviene regolarmente da Moonrise Kingdom in poi rappresenta un ulteriore passo in avanti in questa direzione: quella del disegno della realtà ricreata nei teatri di posa. Wes Anderson da Il treno per il Darjeeling in poi, ha intrapreso una missione: battere tutti i principali e storici teatri di posa del cinema e girare lì. Lo aveva già fatto a Cinecittà proprio per costruire il grande sottomarino di Le avventure acquatiche di Steve Zissou, e da allora ha aumentato sempre più la percentuale di riprese in interni, anche per le scene all’aperto.

Ora gli ambienti, persino i grandi paesaggi dei suoi film, vengono rappresentati come miniature, come diorami, come in L’isola dei cani, interamente animato anche se vi appaiono persone vere. La trama fenicia è pieno di campi di grano, foreste, tunnel e deserti che non esistono in natura, ma sono ricostruiti in studio, senza alcuna intenzione di sembrare reali. Perché nel teatro di posa non c’è nulla prima di iniziare, nemmeno la luce, e dunque ogni elemento che finirà nell’inquadratura va scelto; non esistono il caso né la possibilità di trovare arredi o oggetti in loco.

Wes Anderson, The grand budapest hotel, 2014

Questo consente ad Anderson di popolare le inquadrature con oggetti che a volte sono autentici reperti del passato; altre volte sono creati ex novo per sembrare d’epoca (si pensi all’arredamento o ai libri, sempre molto presenti); in certi casi ancora, forse i più riusciti, sono interamente disegnati per apparire fantastici. La trama fenicia tra gli altri presenta una macchina della verità portatile, un telefono da aereo degli anni ’40 (una cornetta con una presa da attaccare alla parete dell’aereo), e un’incredibile pompa manuale per la trasfusione di sangue in assenza di elettricità. È una maestria che Anderson sta maturando di film in film. I quattro cortometraggi tratti da storie di Roald Dahl che ha realizzato per Netflix, per esempio, sono stati un passo fondamentale nel cominciare a usare il suo solito stile per inseguire il mondo dell’illustrazione.

E ovviamente è tutto perfettamente coerente con il suo mondo, un universo che esiste innanzitutto per come appare. È un mondo in cui un macchinario elettrico ha forme squadrate, un’apparenza dimessa e un design più da rivoluzione industriale che da era del marketing; oppure in cui una bomba sembra uscita dai cartoni dei Looney Tunes, con candelotti avvolti da un elastico e una sveglia come timer. O ancora dove delle bombe a mano sono dipinte tutte uguali come un set di valigie. È facile non farci caso, perché le immagini di Anderson sono sempre più complesse, più dense di elementi e più coerenti. In questo film, un gran finale in un palazzo arredato in uno stile egizio kitsch e impensabile è una delizia. Non è quindi difficile lasciarsi sfuggire l’assurdità di oggetti il cui design, in qualunque altro contesto, sembrerebbe folle. Design da animazione, appunto, divertito e pensato per far sorridere.

Wes Anderson, The grand budapest hotel, 2014

È una concezione completamente diversa da quella che il cinema ha di arredo, costumi e oggettistica solitamente. Là dove l’intenzione è sempre quella di utilizzarli per dare credibilità alla storia, per radicarla nel nostro mondo o in un altro (come nel caso del fantasy o della fantascienza), oppure, come nei musical, per far sognare con variazioni improvvise, nei film di Wes Anderson questi oggetti non sono lì per dare credibilità al contesto, fanno anzi l’opposto. In qualsiasi momento in cui potremmo essere tentati di pensare che la storia raccontata sia vagamente realistica, quel set di oggetti, abiti, capigliature e arredi ci dice l’opposto: non siamo nella nostra realtà, siamo in un luogo in cui tutto può accadere perché le regole della nostra fisica non valgono e ci si può tuffare nelle sabbie mobili come ci si tuffa in una piscina.


È una sovversione artistica dal senso e dalla portata ben più rivoluzionaria ed elevata di qualsiasi trama i film di Anderson possano raccontare. Non è un caso che negli ultimi anni questa componente di design, che pensavamo già fortissima, sia cresciuta a dismisura, con un titanismo della ricostruzione in teatro di posa che viene rilanciato a ogni film, mentre invece la scrittura è calata di tensione e qualità. Accade sempre di meno nei suoi film, e con sempre minor interesse. Personaggi sempre più numerosi vengono introdotti, ognuno con il proprio look e con un piacere palpabile per la creazione continua di “modelli” indossati da grandi attori che per lui sono modelli d’eccezione. Recitano pochissimo personaggi che non hanno psicologie, servono ad arredare le inquadrature e indossare gli abiti.

@fandango Oh dear. Tickets for Wes Anderson's #ThePhoenicianScheme are on sale NOW! Waltzing into theaters May 30. #wesanderson #movietok #movie ♬ original sound - Fandango


La trama fenicia
non fa eccezione: è la storia di un padre che vuole convincere la figlia a seguire le proprie orme e, per farlo, la coinvolge in un’impresa titanica in giro per il mondo. Deve persuadere diversi partner d’affari ad aderire a un progetto ambizioso, dunque vanno visitati uno a uno. Ogni nuova location è introdotta da una cartolina disegnata che mostra l’edificio simbolo del luogo, rappresentato nel minimo dettaglio. Vedute che sembrano uscite da miniature ottocentesche. Ogni luogo ha un suo look, dei suoi colori, e sembra una nuova pagina di un libro illustrato che porta con sè un universo visivo a sé stante.

È così possibile che, in questo film un personaggio che come tutti gli altri ha il suo look rigoroso se ne liberi. Non capita mai in Anderson, perché i suoi personaggi come quelli dei cartoni hanno un look immutabile (i primi ad averlo furono i membri della famiglia Tenenbaum, quando ancora Anderson si sentiva in dovere di giustificare la cosa nella trama), qui invece un professorino timido e indifeso, che scopriamo ben presto essere una spia che sorveglia i protagonisti in segreto, una volta svelata la sua identità dimostra a tutti di essere realmente un altro cambiando look. È di fatto un passaggio da un character design all’altro e solo quando cambia i capelli, i baffetti, indossa diversamente la stessa giacca e fuma ci sembra diverso e del resto convince gli altri personaggi. Non è la rivelazione in sé a dare sostanza all’identità, ma il fatto che questa possa avere un suo look unico. Questo basta: è un altro cartone animato e quindi un altro personaggio. Sembra l’esposizione visiva del processo creativo attraverso il quale Anderson disegna i suoi attori.

Wes Anderson, Moonrise kingdom, 2012

Questo professorino ha delle scatole in cui custodisce insetti, un retino per catturarli e una serie di altri ammennicoli che lo definiscono, ma quando si trasforma, li perde tutti, li stava usando solo per convincere di essere altro (e funzionava!). In quel mondo lì, quello degli oggetti disegnati e impossibili, la loro funzione non è solo quella di essere utili, ma di definire chi li possiede. E le case, con i loro interni incredibili, sono i principali, giganteschi oggetti che definiscono: i preferiti di Anderson, quelli a cui dedica più cura in assoluto. Il grigiore del protagonista interpretato da Benicio Del Toro infatti risiede tutto nella sala da pranzo color cenere, scarna di arredi, in cui mangia con i suoi numerosi figli. È un posto dedicato agli affetti ed è arido come lui. Invece l’aereo lussuoso in cui viaggia per affari è curato, professionale, pieno di tecnologia assurda e oggetto interessanti, perché è quello che ama davvero. Come Wes Anderson ama gli oggetti.

Immagine di apertura: Wes Anderson, La trama fenicia, 2025

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