Esiste una sindrome genetica che in parte spiega le
ragoni per le quali l’evento veneziano della
Biennale
di architettura difficilmente genera una visione
unitaria intorno al tema proposto dal curatore ma
più spesso si presenta come una serie di spunti
interesanti ma isolati.
"I curatori
propongono un tema, magari anche interessante
come quello della scorsa edizione "Architecture
behind buildings" - commenta Branzi - o
come quello di Sejima di quest’anno, dopodiché,
intorno, nessuno sta lavorando su quei temi".
Se quindi geneticamente le Biennali non possono
che produrre delle visioni disperse del futuro, l’arte
contemporanea cui quest’anno si è dato un rilievo
non indifferente avrebbe potuto fornire il tessuto
connettivo critico attraverso il quale ordinare o
perlomeno osservare gli spunti isolati dei vari
autori.
Bisogna invece rilevare come purtroppo
l’allestimento delle opere d’arte presenti in Biennale
non sembra raggiungere lo stesso obiettivo di
Mapping the Studiodel museo Punta della
Dogana che offre interesanti spunti di lettura della
città, del mondo contemporaneo e della stessa
Venezia.
Il lavoro dell’artista gallese Cerith Wyn Evans, con i
suoi riferimenti al Romanzo perduto di
James Merril, la denucia del fallimento della
modernità del newyorchese Tom Sachs o
Blueprint le architetture di seta dell’artista
coreano Do ho Suh + Suh architects, i cui tiranti
che le sostengono corrispondono alle linee stesse
intorno alle quali si costruisce il disegno di
architettura, pur essendo opere molto significative
in sè, così come sono state allestite nel Palazzo
delle Esposizioni sembrano ribadire un punto di
vista piuttosto ovvio.
Allo stesso modo dicono poco gli allestimenti
You split second house di Eliasson e
Cloudscapes di Transolar & Tetsuo Kondo
che appaiono scelti con il criterio di chi si compra
un bel quadro contemporaneo, di un autore
piuttosto noto per appenderselo in bella mostra in
salotto ed essere cool con gli amici,
mentre
proprio l’arte contemporanea avrebbe potuto offrire
delle chiavi di lettura estremente innovative e
interessanti di questa Biennale dispersa in molti
interventi puntuali.
Ovviamente non mancano le eccezioni, e vanno
citate, come l’allestimento 7 rooms 21
perspectives che nel contesto del Giardino
delle Vergini approfondisce la riflessione su
come l’interno continuo che caratterizza il mondo
globalizzato possa risolvere il contrasto tra caos e
architettura. È un progetto cui meritatamente è
stato assegnato il Leone e che ribadisce in modo
originale quanto sembra tentare di dire il progetto
del giardino di Piet Oudolf.
Anche Janet Cardiff con The forty Part
Motetemoziona: quaranta voci registrate
separatamente vengono riproddotte ognuna da
un’altoparlante in modo tale che si ha l’impressione
di passeggiare in mezzo ad un coro di quaranta
persone reali mentre esegue il mottetto
rinascimentale. L’artista canadese suggerisce un
uso sofisticato della tecnolgia qui in grado di
restituire la complessità e la profondità della
musica corale che solitamente viene appiattita a
pochi canali dalle riproduzioni stereofoniche,
rendendo evidente la dimensione tridmensionale e
fisica del suono che attraversa lo spazio.
Accanto a Cardiff appaiono al contrario
caratterizate da un uso meno attento della
tecnologia e quindi meno interessanti le
imponenti visioni tridimensionali della città che
ricorda in un caso alcune immagini di Andreas
Gursky e nell’altro quelle di Blade runner, o di un
videogioco giapponese, presentate in Now +
when Australim Urbanism nel corrispondente
padiglione nazionale per indagare il presente e il
futuro dell’architettura australiana.
Allo
stesso modo sembra dire poco Hylozoic la
foresta artificiale che ricorda quella del film
Avatar: una natura fatta di componenti fabbricati
digitalmente e inseriti in una rete di processori
avvolge il visitatore che si addentra nel padiglione
canadese come una sorta di Jugendstil notturno e
tecnologico e si interroga sul senso di tutto questo.
Forse questa Biennale è soprattutto un invito a non
fermarsi sulla superficie delle cose, alle insegne
colorate della città merceologica, all’iconografia dei
monumenti, al mondo così come appare ma di
cercare di sfiorare l’anima nascosta tra le
sfumature quasi impercettibili delle cose, nella
distanza che separa l’ascolto del mottetto in
Biennale o nelle cuffie di un iPod, nella calma di chi
si siede ad osservare le stagioni che si succedono
dolcemente in una minuscola isola del mare di
Seto.
Immagini:
1 Cerith Wyn Evans
Joanna (Chapter One…)
Photo: Giorgio Zucchiatti
Courtesy: la Biennale di Venezia
2 Tom Sachs
McBusier, 2002
© the author
3 Do-ho Suh + Suh Architects (Eulho Suh and
KyungEn Kim)
Blueprint,2010
Photo: Giorgio Zucchiatti
Courtesy: la Biennale di Venezia
4 Olafur Eliasson
Your split second house,2010
Photo: Giorgio Zucchiatti
Courtesy: la Biennale di Venezia
5 Transolar & Tetsuo Kondo Architects
Cloudscapes
Photo: Stefano Zanella
6 Janet Cardiff
The Forty Part Motet | 2001
Photo: Atsushi Nakamichi / Nacása & Partners Inc.
Courtesy of the Fondation d'entreprise Hermès,
2009
7 OFFICE Kersten Geers David Van Severen + Bas
Princen
7 rooms 21 Perspectives
8 Australian Pavilion NOW + WHEN
NOW Sydney Harbour
Photo: John Gollings
9 John Wardle Architects & Stefano Boscutti
Australian Pavilion 'NOW + WHEN
WHEN Multiplicity
10 Philip Beesley
Australian Pavilion
Hylozoic
MONTREAL Overall
La Biennale di Sejima #3
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- Pierfrancesco Cravel
- 10 settembre 2010