L’avventura degli Archigram

di Gianni Pettena

Archigram, Architecture without architecture, Simon Sadler The MIT Press, Cambridge, Mass. – London, 2005 (pp. 242).

Gli Archigram sono tra i maggiori esponenti di quell’atteggiamento sperimentale che nasce in architettura nei primi anni Sessanta del secolo appena trascorso e che, denunciando una forte volontà di emancipazione dalle eredità precedenti, tende a svilupparsi in consonanza sia con il clima di rinnovamento linguistico delle altre discipline creative che con le mutazioni culturali e di costume della scena urbana. Il gruppo londinese aveva assunto l’insegnamento e l’esempio di Cedric Price a proposito dei criteri di indeterminatezza, deperibilità e polifunzionalità dello spazio applicandolo a un nuovo modello di città, con un tipo di progettazione che in linea teorica accettava e rivendicava, anche se spesso con ironia, le caratteristiche di consumismo e massificazione. La loro ricerca – più che la coeva sperimentazione che si manifesterà quasi contemporaneamente anche in Austria, con Hollein e Pichler inizialmente, e poco dopo in Italia con Archizoom, Superstudio, Ufo e Pettena – apparve particolarmente innovativa per l’introduzione nel tradizionale linguaggio del Moderno dei nuovi vernacoli della pop e della supergrafica, e per la volontaria demistificazione del progetto, diventato un collage di colori e immagini, uno strumento di comunicazione di pensiero più che un luogo di informazioni tecnologiche e funzionali.

La monografia di Sadler si inserisce, arricchendola ulteriormente, in quella serie di pubblicazioni che nell’ultimo decennio hanno riproposto nel dettaglio il lavoro sperimentale degli Archigram, come è avvenuto in Italia per Superstudio, Archizoom, Sottsass, Pettena, Mendini, e più in generale con la mostra “Radicals” alla Biennale di Venezia 1996, a testimonianza di una rinnovata attenzione della critica nei confronti di quegli aspetti che sembrano aver aperto la strada a quella operatività contemporanea in architettura che si dimostra particolarmente sensibile all’idea di relatività della disciplina, di dipendenza dai rapidi sviluppi e mutamenti della città e degli assetti sociali, e della costante evoluzione dei media. In una prospettiva ormai storica, l’autore analizza a questo proposito in particolare la mostra “Living City” allestita dal gruppo nel 1962 all’Institute of Contemporary Arts di Londra, a cui dedica un intero capitolo, constatando e dimostrando come essa abbia proposto un’idea di città, destinata in seguito ad avere ampio seguito, che non è più soltanto una semplice organizzazione funzionale dello spazio ma il vitale supporto di meccanismi culturali in continua trasformazione: la mostra, con la sua fascinazione per l’effimero e il mutevole, introduceva al percorso successivo degli Archigram e all’influenza che questo avrebbe avuto sulla ‘scomparsa’ dell’architettura negli anni a venire. Per gli Archigram, rappresentanti emblematici di una generazione che con la propria ricerca rivelava la necessità di nuove formulazioni teoriche dopo le rigidità del Razionalismo e le insufficienze di gran parte degli enunciati del Movimento Moderno, la ‘scomparsa’ dell’architettura rappresentava la logica conseguenza di una eccessiva, precedente repressione, una risposta ironica al monumentalismo che si manifestava attraverso una progettazione basata su elementi intercambiabili e componenti industriali in cui si delegava alla fantasia e alle necessità dell’utente ogni compito e responsabilità dell’architetto.

La definizione di architettura senza architettura, o di architettura senza architetti, come Bernard Rudofsky aveva provocatoriamente titolato la mostra da lui curata nel 1964, riecheggia l’oltre l’oggetto del campo delle arti di quegli stessi anni, e si riferisce genericamente a un tipo di progettualità, a una ricerca sperimentale, che racchiude in sé tutte le istanze di libertà, spaziale, creativa, politica e di consumo che andavano affiorando nel contesto sociale e culturale degli anni Sessanta. All’interno di questo panorama, il saggio di Sadler individua la posizione degli Archigram come unica e anomala nell’ambito del “disordine ideologico” provocato da questa ricerca di totale libertà: dichiaratamente apolitici più che politicamente impegnati, tecnocratici più che anarchici, individualisti più che hippies, legati tanto alle idee di privilegio economico degli anni Cinquanta quanto a quelle egualitarie degli anni Sessanta furono, secondo Sadler, il prodotto di una cultura elitaria che, così come li aveva incoraggiati in un percorso di ricerca teorica più che operativa, si perpetuerà in ambito accademico nelle generazioni successive che più direttamente subiranno la loro influenza.

Una tesi che rivela la nostalgia nei confronti di un’idea, un po’ antiquata, di un’architettura che trova sempre e comunque, quasi a sua giustificazione, la necessità di una esemplificazione nel costruito per essere tale, quando è invece proprio con gli Archigram – e poi con Hollein e Pichler, e soprattutto con i ‘radicali’ italiani – che si affermerà il convincimento che la rifondazione di pensiero e linguaggi, la pura ricerca, sia al tempo stesso ricerca e opera, architettura. Più ancora del loro referente ideale Buckminster Fuller, l’autore sostiene che questi “nuovi profeti della non-forma architettonica” hanno ottenuto, all’opposto, il risultato di creare uno stile, che, ispirato in loro da un atteggiamento di persistente ottimismo, di fiducia e di entusiasmo nei confronti di ogni tecnologia innovativa, con elaboratissimi progetti di capsule abitative e città robotiche ironicamente intese a dissacrare ogni idea preconcetta di funzionalismo o monumentalismo, ha in realtà anticipato e introdotto l’architettura high-tech e il decostruttivismo dei decenni successivi.

Con il loro personalissimo stile fatto di immagini pubblicitarie, di plastica, di tubi, di componenti meccaniche ed elettriche attraverso cui immaginavano che potesse esprimersi, superando ogni formalismo, il potenziale latente degli edifici e della città, essi paradossalmente derivarono forme e stile proprio dalla strumentazione degli eventi di una società in evoluzione. La novità del testo di Sadler rispetto alle molte altre pubblicazioni dedicate di recente al gruppo londinese risiede soprattutto nello studio dell’influenza da loro esercitata, analizzata attraverso la concreta esemplificazione e il riferimento puntuale alla loro opera.

La tesi dell’autore è che gli Archigram furono gli iniziatori di atteggiamenti mentali e di tecniche ormai divenute consuete per chi ora progetta gli spazi della città o costruisce con il supporto della tecnologia, non tanto per ciò che realizzarono, quanto perché contribuirono a rifondare concettualmente la disciplina allargandola fino a comprendere ogni elemento che potesse contribuire ad arricchirla in un percorso di evoluzione culturale.

Gianni Pettena Docente di Storia dell’architettura all’Università di Firenze

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