A casa di Ugo La Pietra: “viviamo affollate solitudini”

Era il 1972 quando Ugo La Pietra presentava per la prima volta La Casa Telematica. Oggi entriamo nel suo appartamento milanese con una di quelle domande che hanno accompagnato tutta la sua carriera: cosa significa abitare oggi? 

Varcare la soglia della dimora di Ugo La Pietra è come entrare nel nocciolo di una questione tanto privata quanto condivisa: l’abitare. “Nella nostra casa noi pensiamo di essere in un territorio in cui siamo liberi. Uno spazio nostro, invece non è così” afferma La Pietra, citando uno dei primi progetti artistici sull’abitare domestico, chiamato “L’uso dell’oggetto”, libro pubblicato nel 1970. “Eugenio Battisti, un grande storico dell’arte, mi disse che questa era una delle ricerche più belle, dopo quella dei surrealisti”

In questa inchiesta sociologica, La Pietra ha fotografato le abitazioni di diverse persone, chiedendo loro che lavoro facessero e quale oggetto avrebbero voluto possedere tra le 4 mura. “Scoprì che ognuna di queste persone non portava a casa quello che realmente desiderava, ma ciò che la società dei consumi aveva loro imposto. Quindi una falsa libertà.”
Ed è qui che si apre un interrogativo ben più ampio sul ruolo del design e dell’arte nella creazione di ambienti ed oggetti che rispecchino al meglio i desideri e le esigenze umane reali, al di là delle imposizioni della cultura del consumo.

“Ricordo quello che mi disse una volta Munari, tornando dall’oriente: ma lo sai che metà della popolazione mondiale non ha il letto? Oggi si parte dalle tipologie, ma prima bisognerebbe capire cosa serve e come si comporta la gente. Il tema dell’abitare andrebbe rivisto, come lo spazio urbano non è attrezzato per divertire la gente, anche quello privato dovrebbe rispondere a quello che è l’atteggiamento comune delle persone, cioè quello di non stare a casa.”

Viviamo affollate solitudini, a Milano il 40% degli abitanti sono single, stanno fuori e lo fanno in modo ludico, eppure la città ludica non esiste, non è stata mai costruita, non è mai stata pensata.

Ugo La Pietra

Bisognerebbe Abitare il tempo, un assunto che presuppone una riflessione onesta da parte di tutti gli attori che costruiscono il telaio su cui si sviluppa il tessuto sociale: dai politici ai progettisti.

E’ il 1987 quando Abitare il tempo diviene il titolo di una mostra in cui concetti come il tempo e lo spazio venivano mostrati nella loro evoluzione, nel contesto delle abitazioni; sono gli anni in cui La Pietra, tra i protagonisti di questa mostra, presentava alcuni di quei pezzi, che oggi compaiono nel suo salotto: come la “Credenza plissé” e “Colonna Plissé”, realizzate dai fratelli Boffi. Pezzi che hanno dato vita all’iconografia della “Casa Neoeclettica”, un ambiente il cui pensiero progettuale non si riferisce all’eclettismo di fine ‘800, ma ad oggetti costruiti ad arte, senza cadere nel manierismo, ma “introducendo l’eredità delle esperienze concettuali di questi ultimi 20 anni e spostandole a quelle categorie del fantastico e meraviglioso che hanno sempre alimentato i miei disegni.”

Ed è proprio il termine fantastico che più riesce ad incorniciare un oggetto come il “Mobile bar” realizzato da Legend nel 1991 o la “Credenza a baldacchino”, sempre realizzata dai fratelli Boffi. “Di fatto molti oggetti d’uso, come anche molti oggetti d’arte, hanno al loro interno un alto quoziente di artisticità che credo sia leggibile in una sorta di due categorie: la contestualità e la spettacolarità.”

Nella casa neoeclettica i vecchi rituali convivono insieme ai nuovi, “un atteggiamento che la moda ha scoperto per prima” e che La Pietra ha rivendicato nel contesto dell’abitare, com’è stato con la ripresa della figurazione, che dal liberty non aveva più rimesso piede nel mondo del design. Un’intuizione che con La Pietra trova una nuova forma, più leggera, più ironica, con quegli elementi dall’artista stesso definiti “carichi di azzardo” come negli oggetti realizzati insieme a Bertozzi e Casoni, di cui sul tavolo compare un servizio da tè che assume una dimensione balneare. “All’epoca Bertozzi e Casoni erano dei garzoni di bottega della Cooperativa Ceramica d’Imola, ma avevano un talento straordinario”. Ancora una volta gli oggetti e le tecniche più tradizionali incontrano il progetto innovativo e cambiano pelle, riaprono lo scambio con immaginari dimenticati per restituirne una nuova figurazione, si pensi ai tavolini fatti agli inizi degli anni ’80 che indagano il rapporto con l’elemento naturale.

“Ho sempre fatto tante cose, forse troppe. Non ho mai smesso di interrogarmi sui comportamenti degli individui, quello che dovrebbero chiedersi nei luoghi della ricerca: cosa fanno le persone in strada fino alle 4 di mattina? Cosa cercano?”

Mentre i marciapiedi - spazi pubblici che dovrebbero essere deputati ad altro - si affollano di Dehors per la ristorazione, nessuno risponde ad un’esigenza che si esprime in maniera sempre più disperata, quella di avere un’attività ludica nella città. “Tutti hanno capito che la nostra società oggi vuole divertirsi e non trova strutture, questa è una lacuna mostruosa che i designers, gli architetti e gli artisti hanno la colpa di non aver colmato”

Per chi ha contribuito a ridefinire il design attraverso l'innovazione tecnologica e la più profonda comprensione dei bisogni umani, la ricognizione sul presente deve sempre essere una questione aperta.  Oggi partiamo da un presupposto “La gente non ama stare a casa”, nonostante le connessioni e le comodità tecnologiche.

“Viviamo affollate solitudini” afferma La Pietra, “a Milano il 40% degli abitanti sono single, stanno fuori e lo fanno in modo ludico, eppure la città ludica non esiste, non è stata mai costruita, non è mai stata pensata”. 

Ed è così che una città come Milano, che non risponde a delle esigenze, o lo fa senza un progetto, senza un’idea, ma con un puro riflesso consumistico, diviene una “città senza morale” - come la definisce La Pietra, che in questa metropoli vive, osserva, pensa, lavora e non ha mai smesso di scrivere delle nuove istruzioni per abitare la città, dei nuovi itinerari, come quelli ripresentati oggi alla Paula Seegy Gallery, che promuovano una partecipazione più consapevole e creativa da parte delle persone nei loro luoghi. Sono quelle istruzioni che contribuiscono ad una riconversione progettuale dove il cittadino non sia lasciato solo nello spazio che abita. E gli spazi non siano abbandonati in un’assenza di connotazione, di tensione e risposta creativa, che è assenza di vita. 

Un pensiero che è ben espresso nella presenza poetica, di quella scultura luminosa che è “l’Arcangelo metropolitano”, che illumina un angolo della stanza, una lampada realizzata dalla riconversione di una palina stradale, pensata nel 1977 per la metropolitana di Milano “da sempre anonima, pur essendo una seconda città.”

Tra queste presenze totemiche, che ci parlano di un adattamento funzionale nella sua essenza più alta, osservo il Maestro parlare davanti alla sua libreria “Uno sull’altro”, e mi chiedo tra me e me cosa ne sarà del vecchio salotto, ma La Pietra ci aveva già risposto: “Probabilmente rimarrà lì così com’era, immagine di uno spazio non vissuto ma che piace tanto avere come ricordo di una certa ritualità casalinga”.

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