Olivetti come specchio dell’evoluzione del design italiano

Per quasi mezzo secolo, il progresso tecnologico dell’Italia è andato di pari passo con il successo globale dell’azienda di Ivrea, di cui una mostra celebra i 16 Compassi d’Oro, record ineguagliato per un’azienda capace di coniugare innovazione, progettazione e italianità.

Cinquant’anni – quelli che vanno dal 1954 al 2001 – sono il lasso temporale in cui l’Italia è passata da un’economia agricola ai primi personal computer. Una transizione di cui la Olivetti è stata protagonista, prendendo per mano con visione inedita e ambiziosa il futuro tecnologico dello Stivale. In questo mezzo secolo, in cui – parafrasando Pasolini – sono scomparse le lucciole e si sono illuminati i monitor, l’Italia al pari dell’azienda di Ivrea ha visto avvicendarsi, come in un ottovolante, le vertigini del boom economico alle tensioni sindacali degli Anni di Piombo, i ruggenti anni edonisti della Milano da Bere alla svendita delle sue grandi aziende. 

La traiettoria di questo mutamento viene tracciata dal Compasso d’Oro, riconoscimento che dal 1954, su intuizione dello storico direttore di Domus Gio Ponti e Alberto Rosselli, premia le migliori novità nell’ambito del design industriale. 

Non è, dunque, un caso che l’azienda maggiormente premiata nella storia del prestigioso premio sia Olivetti. I suoi 16 riconoscimenti sono ora in mostra all’ADI Design Museum – associazione che dal 1964 si occupa dell'assegnazione del Compasso d’Oro – per accendere riflessioni sul ruolo atemporale della macchina tecnologica una volta cessata la sua fruibilità limitatamente pratica. 

Egidio Bonfante, Manifesto, 1970. Courtesy ADI Design Museum
Egidio Bonfante, Manifesto, 1970. Courtesy ADI Design Museum

“Ci siamo chiesti come potessimo mostrare delle macchine che sono oggetti totalmente defunti. Contrariamente all’arte o ai mobili, che quando passano di moda mantengono la loro funzione, le macchine decadono,” spiega Manolo De Giorgi, curatore della mostra “Podium 16 – I Compassi d’Oro di Olivetti”. Al centro della curatela c’è la necessità di parlare a un pubblico nuovo, fatto di ventenni e di studenti di design, che possa così ricevere stimoli spendibili in futuro. 

Per riuscirci emerge, secondo una tendenza che accomuna sempre di più le mostre d’archivio, la necessità di spingersi oltre l’ostensione puramente museale dei dispositivi, un approccio che De Giorgi vede come stantio. Sono dunque delle sceneggiature interpretate dagli alunni della Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano a fornire, in dialogo con gli oggetti esposti, “un quadro di riferimento del contesto in cui si muovevano le macchine”. 

Questo perché la storia di Olivetti, trascendendo la sola macchina, è soprattutto quella di un certo modo di pensare il design che racconta una stagione unica dell’industria italiana. 

  

A esserne demiurgo è spesso Ettore Sottsass Jr., la cui visione è stata fondamentale per lo sviluppo di un’identità progettuale negli anni chiave dell’azienda di Via Jervis. 

“Nel 1964, quando la Olivetti è in una fase ascendente, con il passaggio dalla meccanica alla macchina elettrica, Roberto Olivetti chiede a Sottsass di diventare il vero coordinatore di Olivetti in Olivetti. Lui però rifiuta questa impostazione e chiede, invece, uno studio in Via Manzoni a Milano con collaboratori scelti da lui, andando a Ivrea due volte a settimana,” racconta De Giorgi.  

Secondo il curatore questo passaggio, impensabile in altre parti del mondo, come negli Stati Uniti, dove il designer era sempre interno alle aziende, è stato uno snodo fondamentale per la futura autonomia del design italiano tutto negli anni a venire. 

“Gli Olivetti avrebbero potuto dire di no. Anche Bellini e De Lucchi hanno poi mantenuto uno studio a Milano indipendente dall’azienda.”

Sottsass, studio ergonomico per postazione alla consolle Elea 1957-60. Courtesy ADI Design Museum
Sottsass, studio ergonomico per postazione alla consolle Elea 1957-60. Courtesy ADI Design Museum

In questo rapporto tra committente e designer risiede dunque la forza delle macchine Olivetti, capaci di conservare un fascino atemporale anche quando la loro funzione cessa. Si pensi all’addizionatrice elettrica MC19 progettata da Sottsass e Hans Von Klier, Compasso d’Oro 1970, alla straordinaria stampante a colori compatta Artjet 10 di Michele De Lucchi e Masahiko Kubo (2001), al centro di lavorazione asse verticale Auctor 400 di Rodolfo Bonetto, o al registratore di cassa Mercator 20 di Mario Bellini, entrambi premiati nel 1984. Ma anche – come sottolinea De Giorgi – a tanti progetti non premiati, come la rossa Olivetti Valentine di Sottsass e Perry A. King che nell’anno della rivoluzione sessantottina sovverte lo status quo delle macchine da scrivere.

Tutti lavori che mettono in luce il capillare impatto sulla quotidianità dell’opera Olivetti tanto da valergli il riconoscimento di un Compasso d’Oro alla carriera nel 1994. Oltre alle macchine ci sono i servizi sociali, l’architettura, i mobili per ufficio, come la linea Spazio di Banfi, Belgiojoso, Peressuti e Rogers (1962), e la più ampia eredità lasciata dall’identità grafica dell’azienda di piemontese. I libri rossi redatti tra il 1971 e 1977 da Von Klier assieme a King e Clinio Trini Castelli, Compasso d’Oro 1979, sono un tuttora un punto di riferimento per chi si approccia alla materia. 

Anche in questo caso, la delocalizzazione è stata la forza di Olivetti, osserva De Giorgi. “Già prima della guerra Olivetti mette la divisione della pubblicità a Milano, dunque se vogliamo dove c’è maggiore sofisticazione e apertura alla cultura europea rispetto al centro di produzione di Ivrea. Questa decisione è un passaggio molto interessante e diverso rispetto ai tedeschi che inizialmente furono un modello per Adriano. Anche in questo campo è stato originale.”

Courtesy ADI Design Museum
Courtesy ADI Design Museum

Se, infatti, la Olivetti viene spesso identificata nella specificità geografica di Ivrea – anche grazie al recente riconoscimento Unesco – secondo De Giorgi l’idea di Adriano “non era l’idea della città, ma un’idea territoriale del tutto più avanti rispetto al concetto di città come matrice futurista.” A dimostrazione di ciò, anche la delocalizzazione della ricerca elettronica a Pisa, della pubblicità a Milano, oltre ai tanti terzisti nel Canavese.

L’avvalersi di figure legate al design e non strettamente autoctone è stato inoltre fondamentale allo sviluppo di una forma mentis in cui la sensibilità di menti provenienti dal mondo dell’arte ha saputo dialogare con le intuizioni tecnologiche degli ingegneri. 

A offrire un esempio è, la Elea vincitrice del Compasso d’Oro 1959. Un grande calcolatore elettronico di 800 metri quadrati – “non un oggetto ma praticamente una casa” – dal gusto modulare.  

Lettera 22, Marcello Nizzoli, Olivetti, 1950. Courtesy ADI Design Museum
Olivetti Lettera 22, Giovanni Pintori, 1956. Courtesy ADI Design Museum

“Quando nel ’58 Sottsass venne chiamato per progettarlo ne fu felicissimo, ma si domandò che effetto avrebbero avuto su chi lo avrebbe usato. Sottsass si pone un problema molto attuale già negli anni ’50. Tant’è che disegnerà oggetti misteriosi, delle specie di totem. Il risultato è un oggetto moderno ma, come diceva lui, che ‘deve fare un po’ paura’,” spiega De Giorgi. 

Nonostante nel tempo Olivetti sia “finita in un percorso sempre più declinante”, De Giorgi riflette come l’azienda abbia rappresentato per il design italiano una specie di padre sempre presente ma dietro le quinte. 

“Si è assistito a uno scambio tra la piccola e la grande industria che nell’ambito del design italiano avviene solo con Olivetti. Le piccole e medie aziende beneficiavano delle innovazioni di Olivetti, che a sua volta se ne usufruiva senza dover investire sin da subito grandi quantità di soldi.”

Ad ogni modo, secondo il curatore, nonostante si senta spesso parlare di Olivetti come un modello da ripetere, non è così. “Io non credo che si tratti di un modello industriale, ma artistico. È una storia unica e senza eguali, non solo in Italia ma nel mondo. È un fatto artistico.”

Immagine in apertura: Lettera 22, Marcello Nizzoli, Olivetti, 1950. Courtesy ADI Design Museum

Mostra:
Podium 16. I Compassi d’Oro di Olivetti
Luogo:
ADI Design Museum, Piazza Compasso d’Oro 1, Milano
A cura di:
Manolo De Giorgi
Assistenti:
Marco Bonomelli, Isabelle Rops
Progetto di allestimento:
Giovanni Maria Filindeu con Giampaolo Scifo, Salvatore Murgia
Progetto grafico mostra:
Silvia Tedesco
Racconti sonori:
Sara Chiappori, Renato Gabrielli
Regia:
Giulia Sangiorgio
Interpreti:
Riccardo Giacomella, Michele Magni, Michele Marullo, Jasmine Monti, Lorenzo Prevosti, Arianna Sain
Catalogo a cura di:
Manolo De Giorgi
Testi di:
Manolo De Giorgi, Sara Chiappori, Renato Gabrielli, Chiara Alessi
Traduzione:
Jon Cox
Progetto grafico:
Giuseppe Basile con Luca Ladiana
Date di apertura:
5 maggio – 11 settembre 2022

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