Michele De Lucchi

“A volte mi sono definito un architetto evoluzionista perché mi ispiro all’homo sapiens, che è stato in grado di evolvere di continuo organizzando nuove soluzioni” (Michele De Lucchi, 2017)

Michele De Lucchi, 2017. Foto © Lukas Wassmann/Total Management. Da Domus 1019, dicembre 2017

Michele De Lucchi (Ferrara, 1951) ha attraversato da protagonista la scena dell’architettura e del design italiano degli ultimi cinque decenni, raggiungendo fin dalla metà degli anni ’80 una grande notorietà anche al di fuori dei confini nazionali. De Lucchi è un personaggio in evoluzione, nella cui carriera è facile individuare alcuni momenti precisi, corrispondenti all’incontro con scale e discipline diverse del progetto.

Durante e dopo la laurea in architettura all’Università di Firenze, nel 1975, entra in contatto con i protagonisti dell’architettura radicale italiana: i fiorentini (Lapo Binazzi, Adolfo Natalini, Gianni Pettena), ma anche i milanesi (Andrea Branzi, Alessandro Mendini), in un momento in cui gli scambi tra i due gruppi sono intensi e fertili.

De Lucchi si avvicina, ad esempio, alla Global Tools e a Studio Alchimia, oltre a co-fondare il gruppo Cavart, con il quale organizza una serie di memorabili performances e installazioni all’interno delle cave di trachite dei Colli Euganei. In questa prima parte degli anni ’70 il De Lucchi fiorentino, come gli altri radicali, si fa portavoce di un progetto culturale anche ribelle, interessato a mettere in discussione le modalità di produzione dell’opera, più che a disegnare e costruire oggetti ed edifici.

Nel 1976 De Lucchi si trasferisce a Milano, chiamato da Andrea Branzi a contribuire all’allestimento della mostra Il design italiano degli anni ’50, al Centro Kappa. Proprio questa occasione si traduce in un momento di passaggio fondamentale, un salto di qualità nel suo percorso, da diversi punti di vista. Lo è sul piano culturale, perché lo avvicina al mondo del product design vero e proprio, ma anche sul piano professionale e sociale in senso più lato. De Lucchi conosce qui i grandi produttori e progettisti della Milano dell’epoca, dai Castelli della Kartell ai fratelli Castiglioni, e poi Vico Magistretti, Gio Ponti, Marco Zanuso.

L’incontro più significativo, però, è quello con Ettore Sottsass. Quest’ultimo lo chiama a lavorare nel suo studio nel 1978, lo presenta alla Olivetti, di cui De Lucchi resta consulente ininterrottamente dal 1979 al 2002, e lo coinvolge nell’esperienza di Memphis, a partire dall’inizio degli anni ’80. De Lucchi riconosce a più riprese la grande influenza esercitata su di lui dal maestro della generazione precedente, tanto da affermare: “Per anni lo copiavo in tutto: mangiavo come lui, mi vestivo come lui…”.

Grazie anche a Sottsass, a pochi anni dal suo arrivo a Milano De Lucchi ha definito gli ambiti principali in cui si concentra il suo lavoro nei due decenni successivi: il disegno del prodotto e l’immagine coordinata aziendale. Per il primo, al di là degli oggetti disegnati per Memphis, e più tardi per Produzione Privata, è essenziale citare almeno la lampada “Tolomeo”, del 1987, forse il suo progetto più conosciuto, oltre che il risultato migliore e di maggior successo commerciale dell’incontro con l’Artemide di Ernesto Gismondi.

Nel mondo corporate, alla collaborazione con la Olivetti seguono quelle con altre grandi aziende ed istituzioni: tra le tante Banca Intesa, Deutsche Bank, Enel, Eni, Poste Italiane, Unicredit, riportate qui in ordine alfabetico e non cronologico. In tutti questi casi, pur con alcuni distinguo, De Lucchi si rivela in grado di combinare la dimensione dell’efficienza con quella della qualità dell’esperienza degli spazi, e di mediare abilmente tra l’adeguamento site specific di ogni filiale e la riconoscibilità della catena.

Con gli anni ’90 e 2000 s’intensifica rapidamente l’attività di De Lucchi architetto, in parallelo anche al progressivo moltiplicarsi delle occasioni internazionali. Oltre ai molti progetti d’interni, gli esiti più consistenti di questo avvicinamento alla scala dell’edificio, se non altro sul piano volumetrico, sono il palazzo per uffici “Il Tronco” di Pforzheim (2012), e soprattutto le molte realizzazioni portate a termine a Tbilisi. Il Ponte della Pace (2010) della capitale georgiana, in particolare, è rappresentativo di un approccio spesso scultoreo all’architettura, esito innanzitutto di un processo di modellazione dei suoi volumi. Non a caso, De Lucchi prosegue al tempo stesso la sua ricerca artistica, di cui le opere più conosciute sono certamente le molte “torri” e “casette” intagliate nel legno, dichiaratamente a cavallo tra una dimensione puramente evocativa e la prefigurazione di architetture costruite.

Gli anni ’10 del XXI secolo sono un periodo particolarmente fortunato per De Lucchi, protagonista assoluto del decennio di gloria della sua città, Milano. Oltre alle tante strutture temporanee di Expo 2015, tra cui il Padiglione Zero e il Padiglione Intesa Sanpaolo, in questi anni realizza una serie di allestimenti e architetture permanenti di grande impatto urbano: il Padiglione Unicredit (2015), la ristrutturazione del Teatro Franco Parenti (dal 2008) e delle Gallerie d’Italia (2012), e soprattutto il ridisegno della sala della Pietà Rondanini al Castello Sforzesco (2015), dove è chiamato a confrontarsi con la memoria impegnativa del progetto precedente dei BBPR.

A chiusura del decennio, il disegno dell’allestimento perThere is a planet, la grande monografica retrospettiva su Sottsass curata da Barbara Radice alla Triennale di Milano (settembre 2017-marzo 2018), e la nomina a guest editor di Domus, confermano il legame privilegiato di De Lucchi con la sua città d’adozione, ma anche la sua autorevolezza culturale alla scala nazionale ed internazionale.

Michele De Lucchi, Mario Rossi Scola, Lampade Minime, 1997. Foto © Donato Di Bello. Da Domus 790, febbraio 1997
Michele De Lucchi, Mario Rossi Scola, Lampade Minime, 1997. Foto © Donato Di Bello. Da Domus 790, febbraio 1997

Nelle parole di Ugo La Pietra:

Michele De Lucchi potrebbe essere definito come l’erede più rappresentativo di quel processo progettuale che si affermò nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta: un processo volgarmente chiamato “Dal cucchiaio alla città” con il quale s’identificava l’impegno in una ricerca metodologico/progettuale applicabile a diversi ambiti disciplinari e su diverse scale d’intervento
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