Nato nel 1920, di qualche anno più anziano rispetto ad altri architetti e progettisti napoletani come Eduardo Vittoria (1923), Filippo Alison (1930) e Riccardo Dalisi (1931), Roberto Mango è un po’ il capostipite di quella generazione di designer partenopei che, cresciuti e temprati nel clima del secondo dopoguerra, e impegnati nella difficile sfida della ricostruzione, hanno fatto dell’essenzialità e del soddisfacimento dei bisogni primari un valore assoluto. Ma senza fermarsi lì, nella profonda convinzione che gli oggetti d’uso quotidiano potessero e dovessero essere non solo utili ma anche belli.
Designer colto e raffinato, docente nelle più prestigiose università degli Stati Uniti (Harvard, Columbia, Princeton), corrispondente dagli Usa per la Domus di Gio Ponti, collaboratore di aziende di primaria importanza come Arflex, Tecno, Poltronova e Gavina, ideatore di sedute diventate iconiche, come la “Sunflowers Chair” o la poltroncina per il negozio di Ferragamo in Piazza dei Martiri a Napoli, Mango è stato uno dei protagonisti di quella fase cruciale nella storia economica e culturale italiana che ha visto la transizione dalle arti applicate al design, passando attraverso il recupero e la ripresa di tecniche artigianali. In questo quadro, un posto di rilievo all’interno della sua proteiforme produzione è rivestito senz’altro dagli oggetti in ceramica trafilata che fra il 1954 e il 1955 Mango ha realizzato per la S.a.v. di Bellavista, antica fabbrica ceramista napoletana, storica produttrice delle ceramiche Capodimonte.
Mango va oltre l’emergenza della ricostruzione, oltre l’ansia da scarsità di risorse. Si sente respirare l’energia creativa che di lì a poco esploderà nell’Italia del “boom” economico.

Gli oggetti che Mango progetta sono vassoi, fruttiere, coppe per lampade, candelieri, tutti realizzati con una singolare tecnica consistente nel disegnare trame adoperando esclusivamente “spaghetti” di gres trafilato, mediamente dello spessore di 5 mm. Il procedimento era già noto in precedenza ai ceramisti, che lo usavano per intrecciare gli “spaghetti” come vimini, per la composizione dei tradizionali cestelli di ceramica, ma Mango lo impiega in un modo nuovo. Prima di tutto cerca di risolvere il problema tecnico di usare il trafilato nelle sue capacità strutturali, ossia di impiegare lo “spaghetto” in senso portante per la composizione di tralicci leggeri e di strutture filiformi.

In secondo luogo Mango pone la tecnica tradizionale al sevizio di un immaginario del tutto nuovo e di una “visione” in cui il rincorrersi di trame e ordito dà vita a oggetti fantastici, che conservano l’impronta del tipo originario (sono pur sempre piatti, fruttiere, coppette o centrotavola) ma alterandolo e offrendosi allo sguardo come non finiti, come difformi, come anomali, e soprattutto personalizzabili dal singolo artigiano attraverso variazioni ammissibili all’interno di un impianto di regole prefissate.
Il gioco di intrecci, trame e orditi è del resto una matrice ricorrente nei progetti di Mango: lo si ritrova nelle corde intrecciate delle sue sedie in metallo così come nel recinto circolare a pantografo per bambini, nelle stampe di nuovi tessuti per il Concorso internazionale Triennale-Jsa come negli studi e applicazioni della cupola geodetica dell’utopista Buckminster Fuller per comprendere la biologia della struttura universale e tendere verso le forze cosmiche. Nelle ceramiche trafilate queste tensioni sono morbide, plastiche, dolci, e generano forme sorprendenti.
Quello di Mango è un modus operandi decisamente in anticipo sui tempi: settant’anni fa, mette a punto un metodo che non prevede la realizzazione di oggetti replicabili all’infinito sempre identici a se stessi, ma piuttosto di oggetti che contengono in sé la possibilità di generare forme sempre diverse senza che l’oggetto perda la sua identità e riconoscibilità.
Si tratta insomma di un processo produttivo fluido e mutevole, che chiede all’artigiano di non essere un mero esecutore passivo ma di diventare un protagonista attivo che collabora con il designer: per questa via Mango si fa antesignano di quelle ricerche sulla personalizzazione della serie che qualche decennio più tardi troveranno in Gaetano Pesce uno dei più convinti protagonisti, ma anche della Proposta per la lavorazione a mano della porcellana che Enzo Mari metterà a punto a partire dagli anni '70 e che ha con Mango qualche evidente debito sia metodologico che formale.
Decisamente in anticipo sui tempi, settant’anni fa, Mango mette a punto un metodo che non prevede la realizzazione di oggetti replicabili all’infinito.
A colpire, negli oggetti d’uso quotidiano di Mango e nella loro capacità di far assumere alla ceramica forme inedite e sorprendenti, simili talora a un merletto, talora a un intreccio di vimini, non è tanto e solo un’originalità formale che va ben oltre la pur nobile tradizione delle più rinomate fabbriche di ceramica partenopee (Capodimonte, Giustiniani, Stingo), ma la forza con cui libera l’artigianalità dalla sua tradizionale sudditanza alla soddisfazione di bisogni: Mango va oltre l’emergenza degli anni della ricostruzione, oltre l’ansia da scarsità di risorse, e immette nella sua ricerca su un’eccellenza locale un pensiero globale in cui già si sente pulsare e respirare l’energia creativa che di lì a poco esploderà nell’Italia degli anni di un “boom” che sarà non solo economico ma anche profondamente e intimamente sociale e culturale.
Immagine di apertura: Domus 296, luglio 1954