L’eredità di Riccardo Dalisi, teorico dell’architettura povera

Scomparso a novant’anni, a lui si deve una pratica rivoluzionaria con cui aveva tentato di ribaltare gli schemi politici, sociali e culturali delle aree più problematiche di Napoli, la sua città.

Riccardo Dalisi è una delle figure che siamo soliti associare al grande filone dell’architettura radicale italiana, anche per via della sua partecipazione alla scuola di Global Tools, considerata come l’episodio tramonto del contro-design. Eppure la sua personale battaglia culturale, che inizia nel 1970 con la pubblicazione di Architettura dell’imprevedibilità, va ben oltre i principi fondativi dei colleghi di Superstudio, Archizoom e tutti gli altri.

Riccardo Dalisi teorizza un’architettura “povera”, a metà tra il pensiero radicale e l’architettura “di partecipazione” di Giancarlo De Carlo. L’architetto segue e propone nuove forme di insegnamento che hanno come obiettivo quello di riorganizzare lo spazio pubblico e comunitario attraverso la costruzione di strutture, modelli, oggetti e mobili. Tramite l’applicazione di una “tecnica povera e di partecipazione collettiva”, Dalisi cerca di risolvere i fallimenti urbanistici del Novecento con la parola, l’ascolto e la pratica sociale.

Convinto che l’architettura potesse diventare un potente strumento sociale, mette in pratica la sua idea di architettura partecipativa conducendo una serie di laboratori organizzati tra l’ottobre del 1971 e il gennaio 1974 con i bambini del rione Traiano, un quartiere di Napoli costruito nel dopoguerra e caduto nel degrado e nelle mani della criminalità organizzata a causa del suo fallimento, innanzitutto urbanistico.

Riccardo Dalisi, Esperimenti ed animazione al rione Traiano, Napoli, ottobre 1971 – gennaio 1974. Courtesy Archivio Riccardo Dalisi. Riccardo Dalisi / Semi di Laboratorio
Riccardo Dalisi, Esperimenti ed animazione al rione Traiano, Napoli, ottobre 1971 – gennaio 1974. Courtesy Archivio Riccardo Dalisi. Riccardo Dalisi / Semi di Laboratorio

Gli scugnizzi del sottoproletariato lavorano fianco a fianco con gli studenti del corso di Dalisi alla Federico II di Napoli, per progettare prima una scuola materna per il quartiere – mai effettivamente realizzata – poi oggetti, strutture, manufatti architettonici. I bambini e gli studenti realizzano con materiali poveri (pezzi di legno, spago, carta, reticoli spaziali) oggetti di ogni tipo, senza una “cultura” borghese ma soltanto per libera associazione, applicando la creatività e sprigionando il potenziale progettuale della loro immaginazione. I risultati sono prodotti inaspettati, raccoglitori di energia, di creatività individuale e collettiva.

La fantasia diventa il mezzo anti-accademico per insegnare l’architettura fuori dalle quattro mura della scuola. La cultura si fa negli scantinati del rione, dove Dalisi raccoglie i gruppi a lavorare, in un ciclo continuo di lotte documentate nei suoi diari, dove racconta sistematicamente gli avvenimenti quotidiani.

  

Se nell’arte già dalla fine degli anni Sessanta si inizia a parlare di “povertà”, con Dalisi nasce e si teorizza la “tecnica povera”, un processo che stimola la partecipazione collettiva e la creatività spontanea unendo la prassi educativa alla cognizione della dimensione urbana nelle sue connotazioni sociali e politiche. Al centro della disciplina torna ad esserci il lavoro con le mani e la partecipazione fisica alla produzione. La “tecnica povera” non riguarda soltanto l’uso di materiali di riciclo, ma consiste anche nell’applicazione di una serie di tecniche appartenenti al passato, che non vogliono essere un nostalgico revival dell’artigianato, ma una realistica presa di coscienza per ristabilire l’equilibrio tra architettura e vita.

Questo esperimento dà vita ad una sorta di stile Dalisi, chiamato “dalisismo” da Alessandro Mendini, che consiste nel riprendere l’atto primitivo del lavorare con le mani in un’operazione lontana dalla sofisticazione letteraria e dagli insegnamenti di laboratorio dei grandi professori. L’operazione di Dalisi è un’azione rivoluzionaria, di critica alla prassi architettonica, che mette in crisi l’idea della professionalità assoluta, chiusa in sé o dominante, creando un connubio tra cultura popolare e cultura universitaria, tra creatività infantile, povera, evasiva ed extra-scolastica, e la creatività degli studenti universitari.

Riccardo Dalisi, Esperimenti ed animazione al rione Traiano, Napoli, ottobre 1971 – gennaio 1974. Courtesy Archivio Riccardo Dalisi. Riccardo Dalisi / Semi di Laboratorio
Riccardo Dalisi, Esperimenti ed animazione al rione Traiano, Napoli, ottobre 1971 – gennaio 1974. Courtesy Archivio Riccardo Dalisi. Riccardo Dalisi / Semi di Laboratorio

Dalisi ancora oggi insegna alle nuove generazioni come sia possibile annullare ogni forma di classismo tramite la rivendicazione del potere creativo. L’architetto individua nella genuinità della subcultura del sottoproletariato una fonte di insegnamento per i giovani studenti abituati ad una visione tradizionale della progettazione. L’architettura viene intesa, da Dalisi, come uno strumento di partecipazione che assume naturalmente un senso di rivolta, una idea di applicazione delle teorie senza precedenti, la cui potenza va ricordata nel nostro arrivederci.

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