Bernhard Schobinger: cultura punk e pietre preziose

Intervista con l’artista svizzero del gioiello, che sperimenta accostando materiali nobili a oggetti usati, reliquie della nostra società usa e getta.

Muovendosi su un terreno minato tra bellezza e antiestetica, e cercando un equilibrio fra i due, Bernhard Schobinger appartiene ai più importanti rappresentanti della gioielleria contemporanea. L’artista svizzero, nato a Zurigo nel 1946, inserisce la disciplina in un discorso sociale attuale e allo stesso tempo rimanda all’origine arcaica del monile. Bernhard Schobinger relativizza la concezione della gioielleria come oggetto prezioso e di lusso e aggira le gerarchie con un’evidente disistima nei confronti delle categorie convenzionali attribuite al gioiello. La montatura e la lavorazione di oggetti di uso quotidiano e di semplici rifiuti aprono uno spazio creativo in cui vengono messi in discussione sia la funzionalità che la storia degli oggetti e dei materiali utilizzati. Il risultato è una ricchezza formale colma di contenuti e significati (anche se a volte invisibili), piena di umorismo, fantasia, storia e destino. L’artista ha un rapporto con i materiali immediato e sensuale, si intuisce la gioia della scoperta con la quale dissolve i confini tra arti applicate e arte visiva combinando materiali poveri e inusuali come cocci, chiodi e rifiuti con metalli e pietre preziose, perle o brillanti. E, al contrario, utilizza materiali preziosi per creare oggetti che di solito associamo a transitorietà e inutilità.

Lo scorso aprile lo abbiamo incontrato negli spazi dello studio dell’artista Turi Simeti a Milano, aperti al pubblico per un progetto di più ampio respiro ideato da Martina Simeti. La mostra di Bernhard Schobinger anticipava l’avvio di un nuovo progetto di galleria di Martina Simeti: in autunno aprirà uno spazio espositivo in via Tortona, a Milano, dove le diverse proposte si concentreranno sul lavoro di artisti internazionali che fanno riferimento al monile e altre forme “marginali” come possibile modalità di espressione, mettendo in discussione la distinzione tra arti “nobili” e arti “applicate”. 

Bernhard Schobinger e Martina Simeti all’interno dello Studio Turi Simet. Photo Fabio Mantegna, Martina Simeti Gallery
Bernhard Schobinger e Martina Simeti all’interno dello Studio Turi Simet. Photo Fabio Mantegna, Martina Simeti Gallery

Gioielli d’autore, gioielli d’artista, di ricerca... Le categorie del gioiello sembrano limitanti. Che cos’è il gioiello?
Mi sono sempre definito orafo, ed effettivamente lo sono. Grazie all’idea di Joseph Beuys che “ogni essere umano è un artista” e a quella di Paul Feyerabend “qualsiasi cosa va bene”, il design del gioiello si è diffuso in modo iperinflazionistico in tutte le direzioni. Si è imposto un modo di pensare fatale: per essere creativi non è necessario né conoscere né saper fare. Diventa sufficiente dichiarare un oggetto opera d’arte, possibilmente fornendo anche un titolo pateticamente fuori di testa. Poiché il termine oreficeria in questa situazione confusa non è più veritiero, alcuni sono alla ricerca di un qualsiasi raccoglitore concettuale. Un artista del tessile, per esempio, che una volta “creava” arazzi macramè, oggi fabbrica “gioielli d’autore”. L’ironia del destino: io stesso ho spinto questo sviluppo verso lo stato attuale, rompendo le frontiere in tutte le direzioni e sdoganando i tabù di colore, forma, materiale e tecnica.

Nutro una grande curiosità sul chi indossa le sue creazioni: forse un discendente dei dadaisti? Oppure meglio non sapere niente sulla fine delle opere?
Il gioiello si aspetta dal suo proprietario un alto grado d’identificazione, soprattutto se indossato, è chiaro, ma questa difficoltà non è una mia responsabilità. L’enunciazione del mio lavoro si riferisce a “tutti e nessuno” (come dice Nietzsche), è sovraindividuale e in dovere verso il nostro tempo, qui e ora. Qualche oggetto viene esposto nelle vetrine dei musei e accessibile a un pubblico interessato, accanto a testimonianze di civiltà, culture ed epoche lontane, vicino agli oggetti del Paleolitico di Cro-Magnon e Neanderthal, oltre a Sumeri, Egizi, Etruschi, Celti, Goti, Inca, Maya e gli abitanti delle Trobriand.

Il suo amore per la sua madrelingua, il tedesco, è evidente: il titolo fa parte del lavoro? Non rischia però di perdersi nella traduzione?
A 16 anni, quando ero studente di arti applicate, mi sono confrontato con il lavoro di Paul Klee e sono rimasto profondamente colpito dall’assonanza straordinaria fra i titoli e i dipinti e i disegni. L’analogia poetica fra linguaggio e immagine rafforza la testimonianza dell’insieme nel senso di Gesamtkunstwerk (opera d’arte complessiva). Il tutto non è soltanto la somma delle singole parti, ma diventa qualcosa di più complesso. Nel mio lavoro le analogie linguistiche si sono presentate in modo del tutto involontario e casuale, come per esempio con la collana “Flaschen – Hals – Kette” (“bottiglia – collo – collana” un gioco di parole fra collo di bottiglia e la collana intorno al collo che diventa Flaschenhals – Halskette). Altri titoli si connettono a reminiscenze della musica punk e new wave o slogan ironici e politico-sociali: Nur sauber gekämmt sind wir wirklich frei! (Solo perfettamente pettinati siamo veramente liberi!), Holiday in Cambodia (Vacanze in Cambogia). Spesso questi giochi di parole non sono traducibili in altre lingue. 

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