Da qualche anno a questa parte, il design scandinavo brilla di una luce decisamente ritrovata. I meriti sono molteplici – gli esperti del settore arredo parleranno in ordine sparso di innovazione tecnica e manageriale, catene del valore dalla performante continuità, un sistema fieristico che si è imposto come un’evidenza per tutta Europa, e una capacità di interpretare la tendenza mantenendo un certo senso dell’identità, senza scimmiottamenti.
Oltre alla solidità del sistema, capace di rilanciare qualità e attitudini ben radicate nel saper fare di questi paesi, c’è poi la questione del gusto. Un elemento ineludibile, quello del linguaggio del progetto, oggi ancora più centrale e strategico proprio quando il design scandinavo è chiamato a interpretare uno zeitgeist, esercitando con disinvoltura una nuova capacità attrattiva.

Da Copenhagen, il marchio Hay guida la nuova ondata del design scandinavo elevando l’eredità del progetto regionale alle esigenze di una contemporaneità sempre più globalizzata. Fondato nel 2002 dai coniugi Mette e Rolf Hay, l’azienda ha una missione mai rinnegata: incarnare il good design con progetti accessibili e belli, traversali nelle opportunità d’uso, ma sempre centrati sulle esigenze delle persone. Se Rolf coordina la produzione di arredi, lavorando con i principali designer del momento – citiamo in ordine sparso Ronan Bouroullec, Erwan Bouroullec, George Sowden, Inga Sempé, Stefan Diez, Doshi Levien, Muller van Severen - Mette è alla guida dell’accessorio, che dirige con grandissima freschezza e senza alcun complesso di inferiorità.
La dimensione è dunque quella di un’azienda a conduzione familiare, ma sbaglieremmo ad associare questo senso di intimità ad un microcosmo chiuso. Da Hay, l’efficacia di scala ha reso possibile una significativa potenza di fuoco distributiva, che tocca oggi quattro continenti ed una visibilità in continua crescita.

Sul piano progettuale, la semplicità formale resta un principio non scritto declinato con grande coerenza. Lo stesso accade con l’uso del colore, mai timido nel campo dei mobili, e decisamente disinvolto nel caso degli accessori, dove cromie accese e vagamente fluo sono trasformate in un elemento di catalizzazione, di richiamo. Bandita la stravaganza che tanto piace ai giovani designer contemporanei, Hay resta fedele ad un’idea tutta sua di minimalismo, legata ad una certa idea del fare industria – e non artigianato –a costi contenuti e di qualità.
L’ampiezza del catalogo permette poi al marchio di Copenhagen di ricreare un universo massimamente esteso e armonioso, quasi una sorta di total look, che guarda all’ideale dell’integrazione organica propria della storia del design scandinavo come ad un’occasione per reinterpretare il senso del classico alla luce di una nuova temporalità. Mai privata – altro tratto molto scandinavo – di un presupposto funzionale e di un carattere accogliente, informale, che si ritrova ad esempio nella valorizzazione di tipologie oggettuali che incarnano l’informalità per antonomasia, come gli stand appendiabiti.

Ormai profondamente radicati tanto nel nostro immaginario che nelle nostre abitudini di acquisto, i bestseller di Hay riaffiorano con una facilità quasi disarmante nei contesti del quotidiano, al punto da rischiare di trasformare la consuetudine data dalla notorietà in un eccesso di esposizione.
Si pensi alla collezione Palissade di Ronan ed Erwan Bouroullec, una serie di sinuose sedute per esterni di grande successo di critica e pubblico, alla About A Chair (AAC) di Hee Welling, seduta a scocca in plastica riciclata compatibile tanto con spazi contract che residenziali, o ancora alla Banker’s Light, rilettura in chiave essenziale della vecchia lampada del banchiere del designer inglese John Tree. Sul versante dell’accessorio, c’è un oggetto apparentemente umile che ha saputo conquistarsi un posto tutto suo dalle parti dell’iconicità: l’ormai onnipresente Colour Crate di Hay, la cassetta flat-pack in plastica 100% post-consumo, sempre più utilizzata come allegro supporto contenitore tanto nel mondo retail che in quello domestico.

Negli ultimi anni, Hay ha individuato nel campo delle riedizioni un’ulteriore opportunità di ricerca e riappropriazione di classici caduti nell’oblio. Seguiamo un ordine cronologico per ripercorrere questo processo di riscoperta, che va dalla Crate Collection, disegnata da Gerrit Rietveld nel 1934 e rilanciata da Rietveld Originals x HAY, alla Result Chair (1959) di Wim Rietveld e Friso Kramer, o alla Rey Collection progettata dal designer svizzero Bruno Rey nel 1971, la cui sedia fa oggi il buono e il cattivo tempo (piuttosto il buono) tra le pagine delle riviste di interni.
Quest’anno, una nuova riedizione è venuta ad arricchire il catalogo: la X-Line Chair by Niels Jørgen Haugesen, un esempio di rigore anni ’70 tutto giocato sulla tensione esercitata tra i piani di appoggio e un filo metallico che ne disegna l’architettura. Versatile ma tutt’altro che banale, la sedia è un’ulteriore conferma della capacità di far vibrare il senso del classico al ritmo del presente. Combinando il gusto dell’iconico con la schiettezza di un prodotto onesto, divertente e senza sottotesti, e capace di aspirare ad una risonanza globale.
