L’uso rivendicato dell’espressione “design democratico” può essere datato senza troppa approssimazione: nel 1995 Ikea presenta al Fuori Salone di Milano la sua collezione Post Scriptum, che segna un cambio di passo per il brand. Il presupposto di quella linea di arredi speciale, al tempo stesso autoriale e a buon mercato, era chiara: dare una dimostrazione di forza della capacità del marchio svedese, fondato nel 1943 da un ragazzo di appena diciassette anni, Ingvar Kamprad, di continuare a rendere attuale un good design alla portata di ogni tasca. L’idea di “create a better everyday life for the many people” rimane del resto una missione che Ikea non ha mai smentito, delineando a colpi di tanti piccoli progetti – tanti quanto i pressoché infiniti prodotti del proprio catalogo – un universo fatto di serenità pratica, inclusiva non solo e non tanto per gli aspetti di genere, quanto per la capacità di poter parlare ad uno spettro generazionale fluido ed immancabilmente vasto.
Venendo all’oggi, sono molti i marchi che mettono a punto un’offerta che possa ancora una volta coniugare l’aspirazione al bello con quella verso l’accessibilità.
Cadremmo però in inganno se dovessimo relegare esclusivamente al marchio svedese questo esercizio di arredo per tutti. Innanzitutto, perché l’aspirazione democratica verso la bellezza accessibile è un bagaglio che la cultura del design scandinavo si porta dietro dalla fine dell’Ottocento – anche quando si parla di design, siamo pur sempre giganti sulle spalle di qualcun altro. In secondo luogo, perché nel dopoguerra il dibattito tra aziende e associazioni dei consumatori scandinave ha dato luogo ad un dialogo vivo sulla necessità di un prodotto che oggi potremmo anche definire come “human centered”, capace di rispondere con buon senso alle esigenze di un quotidiano in divenire. Infine, perché nessuna eredità può dirsi mai individuale e definitiva. Altri paesi e culture del design potrebbero almeno in parte rivendicare questa sensibilità, non fosse altro che per specifici movimenti o periodi storici. E infine perché, venendo all’oggi, sono molti i marchi che, iscrivendosi su questa linea di continuità, mettono a punto un’offerta che possa ancora una volta coniugare l’aspirazione al bello con quella verso l’accessibilità.
Google si rivela lo strumento migliore per individuare gli epigoni della contemporaneità. In un mondo digitale che sembra aver superato gli annunci pubblicitari e le pagine delle riviste, è tra i suggerimenti per gli acquisti del motore di ricerca che scoviamo le proposte interessate a fare breccia sul nostro desiderio di acquisto conveniente. Ed è proprio dagli stessi paesi scandinavi che fa capolino un primo, temibile attore. Il marchio è Jysk, fondato da Lars Larsen nel 1979 e tuttora gestito in famiglia, pur contando su una distribuzione in 50 paesi e più di 3500 punti vendita. Definito come "la risposta danese a Ikea", Jysk contribuisce a proiettare le coordinate del design scandinavo su chiave globale – come lo slogan “una grande offerta scandinava per tutti” suggerisce. L’estetica, mai vistosa, ricorda in effetti le prerogative del design nordico. Sobrietà di linee e colori mirano a massimizzare la capacità di inserimento, relegando ai complementi d’arredo la personalizzazione degli ambienti di vita.
L’aspirazione democratica verso la bellezza accessibile è un bagaglio che la cultura del design scandinavo si porta dietro dalla fine dell’Ottocento.
Lasciata la Scandinavia, la nuova ondata di marchi accessibili arriva invece dalla Spagna. Per prossimità ed attitudine, le giovani leve iberiche fanno propria l’esperienza del fast fashion integrato di cui la Spagna è leader con il gruppo Inditex. Più che di una proposta centrata sulla visione di un designer – del resto quasi mai citato come un asset per il marketing – i marchi accessibili plasmano la propria identità dal lato del consumatore, metabolizzandone gusti e inclinazioni grazie ai dati di acquisto e navigazione. L’aspirazione al comfort e alla trasversalità scandinava dell’inserimento non viene smentita.
A cambiare, però, è l’espressione di un minimalismo scultoreo ed organico - da qualche anno decisamente in voga anche tra il consumo di fascia alta - che attinge dall’identità mediterranea per richiamare un universo fatto di comfort e calore, empatico seppur senza eccessi. È impossibile non citare come riferimento Kave Home, anche se il brand catalano guarda alla fascia medio alta del mercato: l’azienda fondata da Francesc Julià Gelabert negli anni Ottanta è stata tra i pionieri dell’e-commerce e ha avuto inizialmente successo applicando i principi del fast fashion all’arredamento. Oggi ha un florido mercato online e 146 punti vendita su cinque continenti, e un fatturato in crescita nel 2024 del 33%.
Giocano con l’inclinazione pop i marchi Sklum e TheMasie, entrambi originari di Valencia. Il legame con il design nordico è una dichiarazione di intenti rivendicata almeno in parte – fa fede, del resto, l’assonanza del nome Sklum, non proprio di casa tra le sonorità del castigliano. A fare la differenza, però, è soprattutto il ricorso a maggiori contrasti geometrici e materici e l’uso spiccato del colore, che anima in entrambi i casi un linguaggio fatto di linee essenziali e mai severe, anche in virtù di rivestimenti quali microcementi e laccature. Più accentuato è anche il carattere ludico, che può ricordare la ricerca sulle tipologie dell’informale compiuta dalle sperimentazioni di Ikea nel corso dei decenni. In questo scenario, la casa supera l’idea di uno sfondo neutro, di un semplice contenitore funzionale, emancipandosi verso una visione più espressiva e personale dell’abitare, un teatro eclettico e più estetizzato della vita quotidiana.
