La casa per un artista di David Adjaye riflette i mutamenti dell’East End londinese

Dall'archivio Domus, il ritratto di una grande città in trasformazione attraverso un’architettura che combina progetto contemporaneo e patrimonio storico.

La East London di inizio millennio è una delle rappresentazioni più emblematiche di quell'onda che, all'epoca, stava trasformando intere aree di grandi città — nel pieno di una fase di deindustrializzazione — attraverso le leve dell'arte e l’insediamento di quella che Richard Florida aveva appena battezzato classe creativa. Una stagione in cui si sono poste le basi di fenomeni diversi: la gentrification come la conosciamo oggi, ad esempio; ma anche una sensibilità contemporanea al riuso del patrimonio architettonico esistente, come quella che anima il progetto di David Adjaye, presentato da Domus nel dicembre 2002, sul numero 854.

Casa d'artista

I committenti della Dirty House, Sue Webster e Tim Noble, sono autori, insieme, di un numero notevole di opere d’arte. Alcuni dei loro pezzi sono assemblaggi sui quali viene proiettata la luce, che forma così autoritratti di profilo dei due artisti. Per uno dei loro lavori – Dirty White Trash (with Gulls) (Immondizia bianca con gabbiani) – hanno usato come materiale i rifiuti domestici raccolti nei sei mesi precedenti. Dopo averne discusso con Webster e Noble, l’architetto David Adjaye ha progettato per loro la Dirty House, che è abitazione e spazio-laboratorio adatto alle loro specifiche esigenze. Il legame dell’East End di Londra con l’arte contemporanea è ormai di lunga data, grazie soprattutto alla presenza della Whitechapel Gallery e alla disponibilità di spazi a prezzi relativamente bassi. Lo sviluppo in questo senso si è recentemente concentrato nella zona di Shoreditch e nelle immediate vicinanze, dove due mercanti d’arte di primo piano hanno aperto nuove gallerie, e in Brick Lane, dove vivono e lavorano alcuni giovani artisti. La presenza di David Adjaye in questo contesto data dai primi anni Novanta, quando incontrò alcuni di questi artisti, allora studenti al Royal College of Art, dove frequentava i corsi di architettura. 

Domus 854, Dicembre 2002

Nel 1994 Adjaye ha aperto uno studio nell’East End, e da allora ha portato a termine diversi progetti per gli artisti del quartiere: tra questi Chris Ofili e Jake Chapman. È anche autore della Modern Art Inc., uno spazio a nord della Dirty House destinato a esposizioni d’arte: qui Sue Webster e Tim Noble presentano abitualmente i loro lavori. Come l’esterno della costruzione lascia capire, la Dirty House si compone di due elementi principali: una sorta di massiccio basamento, che corrisponde al ‘guscio’ dell’edificio preesistente, e un primo piano con il tetto a sbalzo, di stile completamente diverso. Questa diversità fra i due elementi è la soluzione ideata dall’architetto per ospitare nella stessa struttura residenza e lavoro, senza indurre un senso di ripetitività e di noia. Nella parte inferiore prevalgono le esigenze del lavoro, e occorre avere una certa privacy e un riparo dalle strade adiacenti. Di solito Webster e Noble lavorano insieme alla stessa opera, ma può anche accadere che si dedichino a progetti distinti e separati e di scale diverse. 

Domus 854, Dicembre 2002

Nella Dirty House questo è possibile, grazie alle dimensioni del laboratorio numero uno, che è leggermente più corto della larghezza massima del sito, e del laboratorio numero due, più piccolo e illuminato dall’alto. Al piano superiore prevalgono invece le esigenze abitative: data l’altezza rispetto al piano stradale, il bisogno di privacy e di riparo è minore. Le scelte adottate per trasformare l’edificio preesistente contribuiscono a definire i due elementi della costruzione: lo spazio di lavoro e la residenza. In primo luogo l’architetto ha eliminato la struttura interna dell’edificio originale, conservando soltanto le pareti perimetrali. Ci sono dunque queste pareti, c’è la struttura di acciaio che sostiene il carico del piano dell’abitazione e segue lo stesso schema di quella precedente, con il sostegno aggiuntivo delle pareti interne degli spazi di lavoro. Come i pluviali e altri elementi verticali, i nuovi pilastri sono posti direttamente contro le pareti perimetrali esistenti e sono contenuti in uno strato di rivestimento che aumenta la profondità di tutte le aperture. Le finestre sono state riutilizzate così com’erano, e anche le porte del piano terreno; ai bordi delle preesistenti porte del primo piano sono stati applicati pannelli di ventilazione a tutta altezza. I telai delle nuove vetrate fisse sono situati negli sguinci delle aperture; il rinzaffo delle murature del piano terreno e i mattoni del primo piano sono stati accuratamente restaurati prima di applicare una pittura antivandalismo di colore marrone scuro, che si accorda con le nuove vetrate e unifica i diversi elementi che contribuiscono a formare l’aspetto attuale delle pareti. La diversità dei materiali usati si riflette anche negli schemi di circolazione dei due piani principali dell’edificio.

Domus 854, Dicembre 2002

I laboratori sono organizzati in infilata e offrono la possibilità di percorsi diversi. Per il visitatore il percorso va in senso antiorario: comincia dall’atrio e termina in una corte esterna o nello studio, entrambi accessibili dal laboratorio numero due. Per i due artisti, invece, il percorso comincia dallo studio e diventa sempre più pubblico, via via che ci si avvicina al laboratorio numero uno e all’atrio. Al piano dell’abitazione, il centro della pianta è occupato dal soggiorno; gli spazi di minori dimensioni – cucina, zona bagno, camera da letto e i terrazzi affacciati a sud e o ovest – si trovano invece nella fascia perimetrale. L’impianto centrale del primo piano è ulteriormente sottolineato da un lucernario posto al centro e dalla copertura a sbalzo. Il tetto e il muretto sottostante incorniciano una vetrata panoramica che si apre nella parete esterna del soggiorno: l’apertura a lucernario evita che sguardi indiscreti possano penetrare all’interno, e al tempo stesso dà all’ambiente una grande luminosità, simile a quella dell’esterno. Come in altri progetti di Adjaye, anche nella Dirty House l’architetto dà prova di saper creare un giusto equilibrio fra la struttura generale e i dettagli delle diverse zone. 

Domus 854, Dicembre 2002

Al piano terreno la continuità del percorso attraverso gli spazi di lavoro è rafforzata da piccoli ‘incidenti’ architettonici che avvengono a ogni cambiamento di direzione. Le estremità opposte dell’atrio, per esempio, sono segnate da due gradini laterali e da uno stretto muro rientrato, in cui è tagliata una porta molto piccola. Al piano dell’abitazione, Adjaye uniforma tutti gli spazi – centrali e perimetrali – adottando un’unica pavimentazione di legno dello stesso tipo. Il senso di orientamento suggerito da questo materiale è anche maggiore quando è usato al rovescio, in modo da lasciare a vista le scanalature predisposte per gli scarichi (che altrimenti non sarebbero visibili). Lo stesso materiale è stato impiegato per rivestire la parte interna del muretto del primo piano, dove è inserito un sistema di illuminazione tenue, che riflette la luce dal pavimento alla faccia inferiore del tetto. L’attenzione alla continuità non esclude altri dettagli di diverso genere: come per esempio la feritoia di ventilazione tagliata nella parete posteriore di una doccia. Nel lavoro di Adjaye, la Dirty House è il secondo di una serie di tre progetti, che comincia con l’Elektra House (completata nel 2000) e termina con una casa in West London, la cui costruzione sarà avviata nel 2003. 

Domus 854, Dicembre 2002

I tre progetti hanno alcune caratteristiche in comune: zone d’ingresso alte e strette, differenze accentuate fra i diversi livelli della costruzione, un uso ben calcolato dei lucernari, spazi esterni riparati da muri che danno luogo a piccoli cortili. A parte queste somiglianze, però, i progetti hanno scala e carattere diverso. Adjaye definisce ‘casual’ l’Elektra House, ‘informale’ la Dirty House, mentre la terza, la più ampia, sarà ‘formale’. Ogni costruzione unisce al senso di radicamento nel sito l’allusione a realtà diverse e distanti. Nella Dirty House, per esempio, l’aver mantenuto le pareti dell’edificio preesistente significa aver voluto conservare un riferimento a una certa fase della storia e del linguaggio vernacolare di Shoreditch: mentre il terrazzo, con la sua copertura a sbalzo, rimanda ad altri aspetti della città. In questo senso la casa è paragonabile alla Case Study House n. 22 di Pierre Koenig, con la sua grande vista sulla baia di Los Angeles.

La Dirty House aggiorna il modello della casa-laboratorio in una forma che tiene conto di una serie di canoni contemporanei. I due laboratori non sono soltanto spazi destinati al lavoro quotidiano dei due artisti, ma si prestano anche alla presentazione e all’esposizione di opere, sia direttamente, sia in fotografia. In questo senso le soluzioni spaziali adottate nella Dirty House potrebbero avere un’influenza interessante sulla progettazione di altri spazi destinati all’arte. Nell’architettura e nei dettagli l’edificio combina la chiarezza distributiva (riflessa anche nell’esterno) con una serie di elementi di dettaglio, che di questa chiarezza mettono in rilievo, con notevole eleganza, diversi aspetti e implicazioni.