Quando affronteranno l’evento pandemico di questi anni, i futuri studiosi dell’iconografia del passato dovranno fare i conti col complesso rapporto tra identità e autorappresentazione inscenato con le mascherine dai loro antenati. Non solo un modo espressivamente sterile per lavorare collettivamente al grande tentativo di fermare i contagi, come fu nel caso della Spagnola all’inizio del XX secolo, ma il medium con cui i singoli attori di questo “film in maschera” hanno deciso di interpretare sé stessi e, nel far questo, di raccontare il presente.
Come e più delle immancabili (e storicamente codificate) t-shirt, le mascherine si sono fatte narrazione del mondo, poiché invece di frammentarsi in una miriade di didascalie solipsistiche i messaggi di cui sono diventate portatrici sono stati indirizzati verso i principali e imprescindibili temi della nostra epoca.
E quale luogo se non New York, la città più fotografata del mondo, potrà fornire nel tempo un ideale caso studio? Da anni Francesca Magnani ha reso le sue strade il proprio studio a cielo aperto e, con un raro mix di street photography e fotografia antropologica, ne ha raccontato curiosità e idiosincrasie, ansie e tendenze, come per esempio la resistenza e la resilienza che i suoi abitanti hanno dimostrato dall’11 settembre all’uragano Sandy.
Con la mostra La città in Maschera, il Consolato Generale d’Italia a New York presenta, fino all’11 novembre, 25 delle 600 fotografie selezionate da Magnani tra le migliaia realizzate in questi due anni di pandemia, immagini così necessarie e circostanziate che circa ottanta sono state acquisite dall’archivio storico permanente dello Smithsonian di Washington, e fanno ora parte del primo set di documenti digitali sulla pandemia.
«A partire dal marzo 2020 ho catturato con la macchina nei movimenti e nelle espressioni di chi incontravo la stessa angoscia, incredulità, confusione che sentivo in me,» scrive Magnani. «Giorno dopo giorno e passo dopo passo, nei vari quartieri ho però anche visto che gli abitanti della grande mela hanno quasi iniziato a indossare i propri sentimenti su un pezzetto di tessuto.»
E prosegue: «Quando è stato possibile ho sempre scambiato due parole sulle maschere che vedevo, perché intuivo che avevano una storia dietro, e mi rendevo conto che alle persone che incrociavo faceva piacere condividerla con me. Siccome nessuno di questi ritratti è stato programmato, ogni foto mi ricorda un itinerario che ho percorso e va a segnare un istante nella mia storia in cui una scintilla di connessione mi ha fatto sentire riconosciuta e umana.»
Ma la vera forza del lavoro di Magnani sta nella fluidità con cui la narrativa della rappresentazione scorre naturalmente indisturbata da Covid 19 a Black Lives Matter, passando per la metafora nemmeno tanto implicita delle ultime parole di George Floyd. Nel momento di maggior paranoia verso gli altri, quando il semplice atto di respirare porta in sé il germe del contagio se non dell’estinzione, la mascherina muta quindi da presidio medico a strumento informativo, da atto di difesa e prevenzione ad azione di protesta e ribellione. Nel passaggio logico ma non scontato da “I can’t breathe” ad “I will breathe” c’è la scoperta che mai come ora siamo tutti connessi, e che solo indossando ognuno la maschera dell’altro possiamo riconoscerci per quel che siamo.