Roma, Napoli, Milano, Genova e Palermo nelle foto “smart” di Giovanna Silva

Come sta cambiando, nell'era degli smartphone, il rapporto tra le città e chi le racconta per immagini? Prendendo spunto dalla pubblicazione del suo nuovo progetto, tutto realizzato con un iPhone, ne parliamo con la fotografa.

Sui doppi sensi insiti nella definizione di “smart photography” si potrebbe scrivere un trattato, ma se c’è una cosa semplice e indubbia da dire è che, intelligenti, furbe, brillanti o scaltre che siano, le immagini realizzate con lo smartphone si stanno imponendo, per numero e facilità di esecuzione, e quindi pervasività, su quelle scattate con le macchine fotografiche. C’è chiaramente prima di tutto un tema di intenzione, ovvero di destinazione d’uso, ma l’ennesima democratizzazione della fotografia è sotto gli occhi (e nelle—anche se forse non sempre per le tasche) di tutti.

Processori sempre più performanti, obbiettivi sempre più precisi e sensori sempre più grandi a dispetto di dimensioni sempre più ridotte, software sempre più fluidi e connettività sempre più veloce, e soprattutto l’intelligenza artificiale che appiana difetti ma anche peculiarità (e che quindi solleva anche questioni spinose perché irrisolte o già superflue perché irrisolvibili) sono i fondamenti di questa rivoluzione, che interessa sempre di più anche i fotografi professionisti e che trova probabilmente la sua espressione ideale nella fotografia del contesto urbano. Che si lavori infatti in modalità focalizzata, dinamica se non frenetica, o in declinazione flâneur, quindi randomica se non fatalista, avere sempre a portata di mano device sempre più—anche se non sempre a prezzi—competitivi fornisce sicuramente una marcia in più per entrare e restare nel flusso creativo che dall’ispirazione porta alla realizzazione—e perché no, all’immediata condivisione—di un progetto.

Con la fotografia in tutte le sue sfaccettature Giovanna Silva vive ormai da anni un’intensa e proficua relazione/ossessione: dopo aver studiato da architetto e aver lavorato come photo editor, è diventata editore per vocazione (sua la Humboldt Books) ma è da sempre fotografa per passione (con numerose pubblicazioni all’attivo). E da qualche tempo fotografa con l’iPhone, rigorosamente in modalità ossessivo–compulsiva. In attesa di un libro su Milano con Mousse Publishing, e di un volume dedicato a Napoli, abbiamo parlato con lei di città e smart photography in occasione dell’uscita Nero Editions di Roma. Never Walk on Crowded Streets.

Iniziamo con una domanda solo apparentemente banale: da cosa deriva la tua fascinazione per le città? 
In generale, credo, dai miei studi di architettura – a qualcosa saranno pur serviti! E anche ad un occhio antropologico, in cui osservo come le persone performano gli spazi. L’architettura e le città sono fatte dalle persone che le vivono.

Come pensi che la smart photography abbia cambiato o stia cambiando il rapporto tra i fotografi e le città?  
Credo che la smart photography abbia cambiato la fotografia in generale, ma lascio la parola agli esperti. Certo è che nel suo rapporto con le città, risultano vincenti alcuni scatti fotogenici rispetto altri. Non si indaga più tanto sulle zone depresse, quanto sullo scatto ad effetto. Questo credo per quanto riguarda la fotografia in genere, non tanto quella praticata dai professionisti, che invece, mi sembra, vadano controcorrente indagando proprio quelle aree non instagrammabili.

Per te che invece sei architetto di formazione (e che, immagino, hai praticato ampiamente la lentezza dello sguardo e probabilmente parecchie tipologie di macchine fotografiche), quanto l’uso dell’iPhone ha cambiato il modo di restituire in immagini il paesaggio urbano?
Ognuno si sceglie una macchina fotografica consona al lavoro che deve fare, e alla sua indole. Io sono partita con il banco ottico, sono passata al medio formato, poi alla reflex e poi ora al telefono. Il perché è dovuto anche al tipo di fotografia che faccio. Il telefono mi permette di essere invisibile, ossessiva e sportiva. Le tre caratteristiche che delineano la mia personalità e quindi anche la mia fotografia. Ognuno trova il suo strumento, e mi rendo conto che non cerco lo scatto perfetto, quello che poteva aversi con un banco ottico, in cui la lentezza, i costi e la macchina stessa ti permettevano di scattare qualche foto al giorno. Sono un fotografo compulsivo, cammino fino ad esaurimento, indago con rapidità, e accumulo immagini. E questo ha fatto sì che l’iPhone sia diventato il mio strumento.

E il cosiddetto “paesaggio sociale”? Dal punto di vista dell’approccio, gli smartphone sono un vantaggio o, abbattendo il divario tra fotografo e soggetto—che ha in ogni momento la possibilità di esercitare il potere di diventare a sua volta fotografo—rischiano di togliere all’autore il vantaggio di essere riconosciuto come tale e di avere in qualche modo il controllo? 
Certamente il fatto che tutti siano dotati di uno smartphone rende tutti fotografi e quindi nessuno. Però proprio in un’epoca in cui la fotografia sembra scomparire nella sua autorialità assisto - soprattutto in qualità di docente - ad una rinascita dell’amore per la pellicola e la sua artigianalità.
Nelle giovani generazioni, dopo anni di sperimentazione tecnologica, in cui software non nati per la fotografia venivano ‘piegati’ a questa, dove interventi digitali postproducevano qualsiasi scatto, ora mi sembra tornata una passione per la pellicola e il vintage. Io non appartengo alle giovani generazioni, e quindi scelgo il digitale con moderazione.

A tuo avviso, quali sono i vantaggi intrinseci della smart photography? Intendo dire le caratteristiche peculiari di cui beneficia chi per fotografare usa uno smartphone invece di una macchina fotografica? E quali i limiti? 
I limiti che vedo sono relativi, da un punto di vista professionale forse, se devo trovare un punto negativo, la qualità di stampa. Quando mi capita di fare dei lavori per musei o istituzioni, da considerarsi come opere, o lavori commerciali, spesso la dimensione e la qualità dello scatto influisce sul lavoro stesso. Inoltre, un po’, da un punto di vista personale, mi spiace un po’ che tutti questi ricordi rimangano sempre bloccati nei nostri telefoni, sempre a portata di mano ma mai realmente presenti.
Sono sicuramente molti gli aspetti positivi, nessuna macchina fotografica, seppur compatta, ha quella immediatezza nello scatto. E anche l’invisibilità che il telefono ti consente. Tutti noi siamo abituati a vedere persone che fotografano con il telefono, e diventano invisibili nel nostro panorama visivo. Io stessa sono invisibile agli occhi delle persone che mi vedono fotografare con lo smartphone, e questo per me è la cosa più importante, che, ripeto, mi fa lavorare sull’ossessività compulsiva dello scatto ma supera i limiti della mia timidezza.

Giovanna Silva, Palermo

Ci sono città o paesi che in qualche modo senti più adatti a essere fotografati con uno smartphone, o in cui hai sentito che dinamismo, connettività e perfino politiche sociali ne favoriscono l’uso migliore? E quali sono i luoghi o le occasioni in cui invece ti sei trovata a pentirti di non avere con te una macchina fotografica? 
Non credo ci sia una città o un paese più adatto ad essere fotografato, ogni paese è interessante a modo suo. Mi rendo conto che quando viaggiare era un piacere, e si poteva fare soprattutto, ho usato l’iPhone in diverse città a diverse latitudini, è il mio occhio che va a ricercare le stesse cose in contesti diversi. Certo è che prima di questo annus horribilis i miei viaggi si rivolgevano più al Medioriente. E qui, un occhio attento munito di iPhone può scovare molte cose. È l’accumulazione di oggetti e un certo grado di fatiscenti romantica che mi affascina nello scattare in questi paesi. Ora, rivolgendomi per causa di forza maggiore all’Italia, ho trovato in Roma un ottimo soggetto. La luce qui rende tutto magico, e la città stessa offre opportunità da tutti i punti di vista, i grandi monumenti della storia ma anche una periferia che fa da contraltare alla bellezza struggente del centro. Non mi sono mai pentita di non avere la macchina fotografica, anche perché, essendo ansiosa, la macchina fotografica mi aspetta sempre in uno zaino in albergo, e se proprio trovo un’inquadratura che merita, ci torno. Se perdo l’attimo, pace.

Qual è il tuo modus operandi? Accumuli e poi selezioni? Selezioni al momento? Non selezioni? E, quanto alla tecnologia, lasci che l’algoritmo usato dallo Smart HDR del tuo iPhone sia libero di “esprimersi” o preferisci intervenire manualmente? 
Non uso nessun filtro né HDR, e quando ho pubblicato il libro su Roma, interamente realizzato con iPhone, anche la post-produzione è stata pochissima. Mi interessa più lo strumento che le potenzialità.
Accumulo sempre, ma questo anche da prima dell’iPhone. Per me il lavoro di fotografo è soprattutto nell’editing. Non è un caso che insieme alla fotografia io lavori nell’editoria, dove la selezione è fondamentale per creare una struttura narrativa. Lavoro spesso per composizioni formali a dittici che ritrovo una volta che riapro le mie cartelle piene di centinaia di migliaia di foto. È anche vero che con l’abitudine l’esperienza e un’ottima memoria a volte quando scatto in quell’istante mi viene già in mente una potenziale coppia o sequenza. Quindi per fortuna il lavoro davanti allo schermo è relativo.

Che tipo di uso fai, se ne fai, della post–produzione? O la consideri una sovrastruttura—se non uno spreco di energie—che ha fatto già il suo tempo?
Sulle foto che faccio con iPhone non intervengo mai. Sono foto che nascono per quello che sono, anche nella loro imperfezione. Devono riassumere quel momento e quello sguardo - che cercherà di essere il migliore possibile al momento dello scatto.
Diverso è il mio rapporto con la foto digitale prodotta da una macchina fotografica. Postproduco molto quando lavoro commercialmente, ‘pulendoli più possibile la fotografia da tutti quei segni che la vita lascia negli edifici. Raddrizzo qualche linea, e il segreto è far apparire l’architettura perfetta senza far vedere nessuna forma di intervento digitale.

Come vivi la dicotomia tra la fluidità della smart photography e la rigidezza dell'editoria cartacea? È possibile raccordare in un prodotto efficace due media apparentemente così divergenti? E in che modo risolvi il passaggio concettuale tra l'immediatezza dei social network e il tentativo di creare qualcosa di duraturo? 
Il rapporto per me è a priori. Mi spiego per me la fotografia è quasi sempre a scopo editoriale, mi interessa il formato libro, meno la mostra in sé. Quello che il libro racchiude è una storia presumibilmente eterna, completamente diversa dal tempo che ci diamo sulle piattaforme digitali.
L'accumulazione che però la smart photography consente va bene calibrata rispetto ad un formato cartaceo che per sua stessa natura ha un limite fisico di foliazione. Nel libro su Roma ho tentato di raccontare questa ossessione attraverso 634 pagine. A Milano conto di fare di più, rimpicciolendo addirittura le foto accostandomi all'immagine che abbiamo quando apriamo la nostra libreria di foto sul telefono. Concettualmente il tentativo di racchiuderle in un libro è l'operazione che mi consente di far diventare lo smart qualcosa di normato, e in quanto tale duraturo

Sei anche editore, e nel panorama italiano i libri che curi si distinguono non solo per chiarezza di intenti ma anche per una sorta di etica nell’organicità delle proposte: come ti poni nei confronti dell’indiscriminato affastellarsi di immagini connaturata a quest’ennesima democratizzazione della fotografia? 
Non ho una posizione. Da un certo punto di vista la democratizzazione crea mostri. Dall’altro è uno strumento utile, se veicolato nel modo giusto. L’importanza dei libri, in generale, è di riuscire a veicolare la coscienza e la cultura verso un uso consapevole di quelle immagini.

A proposito delle implicazioni etiche del produrre immagini, secondo te è necessaria una maggiore educazione all’immagine—col pretesto dell’applicazione della logica, in Italia si studia il latino, una lingua morta, ma non il linguaggio fotografico, che è il modo in cui ci esprimiamo ormai più o meno tutti—o per te fa tutto parte di un processo naturale, che in quanto tale non va appreso ma alla meglio affinato e alla peggio lasciato libero di contribuire all’entropia culturale? 
Mi mantengo con l’insegnamento della fotografia, quindi ho una posizione etica da difendere, cercare di incanalare la fotografia con rigore logico. Ho degli studenti bravissimi, mediamente molto più informati di me, ma capire come comporre logicamente la fotografia sotto uno spettro più ampio è mio compito. Mi spiego, ognuno di noi conosce le parole di una frase prese nella singolarità, ma metterla in linguaggio è un’altra cosa. Il singolo scatto può essere fortissimo, ma creare un linguaggio, una poetica, non è un processo naturale credo, anche se aiutati dal talento bisogna studiare per avere gli strumenti per trasformarla in uno strumento utile. C’è un rigore in tutto quello che si fa e forse in questa iperproduzione di immagini, questo rigore si sta perdendo. Mi chiedo sempre quando faccio una foto: è necessaria?

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