L’arte performativa è spesso trattata come un pettegolezzo: tutti dicono che conta, ma quando li si incalza, tirano fuori aneddoti, non ragioni. Se per voi la performance resta quella degli anni Settanta – resistenza nel cubo bianco, l’artista solitario contro il muro – può sembrare lontana dalle questioni pratiche delle istituzioni. Eppure, nell’ultimo decennio, è passata dai margini al centro della vita museale. Non per nostalgia, ma perché il tempo del “dal vivo” risponde alle esigenze del presente: catturare l’attenzione, accogliere il pubblico, lavorare con storie che sono ancora in evoluzione.
La performance, l’arte sottovalutata che costruisce il nostro tempo
Da esperimenti di nicchia a cuore della vita museale: le arti performative stanno ridefinendo il modo in cui ci riuniamo, osserviamo e ricordiamo — e stanno trasformando il mondo dell’arte.
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- Nicolas Vamvouklis
- 12 novembre 2025
Cominciamo dall’attenzione. Un quadro si guarda e si supera, un edificio si fotografa e si lascia. Una performance, invece, è un appuntamento. Ti chiede di arrivare a un’ora precisa, di esserci con il corpo e con la pazienza, di accettare che il lavoro accada in relazione a te. Questa richiesta minima riorganizza silenziosamente tutto ciò che la circonda. La biglietteria adotta orari fissi. Il foyer diventa soglia, non sala d’attesa. Il personale si trasforma in mediatore, capace di orientare e rispondere. La documentazione smette di fingere di sostituire l’evento: diventa promessa di un ritorno. La performance cambia il museo nel punto esatto in cui lo si percepisce davvero.
Il tempo del ‘dal vivo’ risponde alle esigenze del presente: catturare l’attenzione, accogliere il pubblico, lavorare con storie che sono ancora in evoluzione.
Non è solo una questione culturale, ma anche architettonica. La maggior parte dei musei è nata per custodire oggetti, non azioni. Eppure bastano pochi interventi per cambiare il respiro di uno spazio: pavimenti resilienti, visuali libere, luci regolabili, impianti silenziosi, accesso all’acqua, magazzini per gli oggetti di scena. Non serve introdurre un teatro nella galleria, ma permettere alla mostra di diventare una coreografia dell’accoglienza. Sedute flessibili che si riconfigurano facilmente, prese dove servono davvero agli artisti, programmazione logistica che rispetti i tempi delle prove. Quando queste basi ci sono, l’edificio comincia a collaborare.
L’ospitalità tiene insieme tutto. La performance costringe le istituzioni a dichiarare chi servono e come. I programmi seri trattano il pubblico come una pluralità di partecipanti, con bisogni diversi. Ai dettagli pratici si affiancano domande più sottili: in che lingua è scritto il testo introduttivo, e chi lo capisce? La planimetria permette a chi usa ausili per la mobilità di vedere davvero? L’acustica privilegia la voce, non solo il proiettore? Questi non sono accessori, ma la grammatica etica dell’incontro dal vivo.
La conservazione resta una preoccupazione ricorrente. Come può un museo collezionare qualcosa che svanisce? La risposta è semplice: raccoglie accordi, non istanti. Partiture, protocolli, video formativi, testimonianze orali, appunti di casting, diritti di riproduzione – sono questi gli strumenti che permettono a un’opera di durare senza diventare reliquia. Non è un’idea nuova – le scatole Fluxus e le opere didattiche lo avevano già intuito – ma oggi i metodi si sono affinati. I conservatori parlano di “ricalibrazione” dopo ogni acquisizione: capire come un lavoro si adatti a nuovi spazi, interpreti, norme, pubblici, restando se stesso. Il loro mestiere passa dalla stabilità della materia alla cura delle condizioni.
Anche la questione economica conta. Si dice che la performance costi meno perché “non c’è nulla da comprare”. In realtà, sposta il budget sul tempo: prove, compensi equi, produttori, tecnici, consulenti per l’accessibilità, sostituti. È un’economia diversa, non meno reale. In cambio, le istituzioni guadagnano agilità, rilevanza civica e un pubblico che torna perché sa che qualcosa accadrà. Il programma dal vivo diventa il battito del museo e ne ridefinisce il ritmo: non più solo mostre, ma sequenze di eventi che tengono alta l’attenzione per mesi.
Non serve introdurre un teatro nella galleria, ma permettere alla mostra di diventare una coreografia dell’accoglienza.
I critici dicono che la performance scompare. Io direi piuttosto che insegna a restare. Il residuo di un’opera forte non è un selfie, ma un comportamento. Dopo una performance che trasformava la rabbia in gesto, ho percepito il mio respiro in maniera diversa per giorni. Dopo una passeggiata guidata che riscriveva le storie nelle sale, ho letto le didascalie con un’attenzione diversa. La performance è una scuola di presenza, e le istituzioni che la ospitano diventano scuole a loro volta: insegnano ad arrivare, ascoltare e andarsene in modo diverso.
La mediazione – ciò che accade tra opera e pubblico – diventa visibile e concreta. I programmi efficaci sono chiari senza essere didascalici: una breve introduzione all’ingresso, un team che sa rispondere senza controllare, una documentazione che rispetta la vitalità senza pretenderne la replica. L’approccio peggiore nasconde la performance dietro un gergo da addetti ai lavori; il migliore tratta i visitatori come estranei intelligenti. Il linguaggio conta: sul sito, nelle didascalie, nella prima frase detta in sala. È lì che si stabilisce il tipo di attenzione richiesta. La collezione solleva un’altra questione importante. Cosa significa accogliere una performance in un museo? L’esperienza di Fluxus lo insegna: i musei non conservano solo oggetti, ma possibilità. Un’opera fatta di istruzioni può vivere in più versioni e restare autentica. È il principio che oggi guida le acquisizioni coreografiche, i progetti sulla disabilità, le commissioni basate sul tempo. I comitati imparano a leggere i contratti come leggono le tele: chi può riproporre l’opera, come si sceglie il cast, quali elementi sono variabili, quali non negoziabili. Cambia il registro, non la responsabilità: preservare l’integrità dell’opera lasciandola vivere.
L’equità attraversa tutto. Quali corpi sono al centro? Chi parla, e in che lingua? Chi si sente accolto e chi osservato? La performance può riprodurre le stesse gerarchie che contesta, a meno che le istituzioni non costruiscano fiducia e condividano risorse. Significa coinvolgere gli artisti in anticipo, perché possano modellare lo spazio, non paracadutarli in sale inospitali. Significa aprire la critica durante la progettazione, non dopo il comunicato stampa. Significa riconoscere che un museo non è un terreno neutrale, ma un attore civico con precise responsabilità.
La performance è un’infrastruttura dell’attenzione che i musei possono imparare, mantenere, condividere.
I media digitali si integrano in modo naturale. Non sono nemici della performance, ma parte del suo ecosistema. Le piattaforme social possono diventare taccuini di schizzi, diari di prove, ponti verso chi non può essere presente. La differenza è tra una documentazione che appiattisce e una che invita. I brevi video didattici non sostituiscono l’incontro dal vivo: lo ampliano, offrendo modi per portare a casa il lavoro, non solo l’immagine.
Può sembrare idealistico, ma in realtà bastano pochi gesti per passare da “ospitiamo performance” a “fa parte di ciò che siamo”. Il primo è nominare un produttore con potere decisionale, perché i programmi dal vivo spesso muoiono nei comitati. Il secondo è dedicare una sala come spazio di preparazione, così ogni progetto non deve ricominciare da zero. Il terzo è stabilire modelli di acquisizione per partiture e formazione, evitando improvvisazioni legali. Il quarto è investire nella mediazione, coinvolgendo artisti ed educatori nel modo in cui il pubblico incontra l’opera. E infine, il quinto passo è misurare il successo oltre i numeri: nel ritorno dei visitatori, nella durata della loro permanenza, nella capacità di attrarre nuove comunità.
Tutto ciò che ho abbozzato in questo articolo ha preso forma durante In the Moment al Museo Nazionale di Oslo: un fine settimana di concerti, installazioni, passeggiate e incontri pubblici. Non è una recensione, ma una riflessione sul ruolo della performance oggi, nata da quell’esperienza. Ne emerge una verità semplice: la performance aiuta le istituzioni a mettere in scena il pubblico che desiderano – attento, ricettivo, equo – e insegna al pubblico a esercitarsi nella presenza, su scala umana.
Quindi, la performance è ancora rilevante? La domanda giusta da porsi è: cos’altro ci insegna a riunirci, ascoltare, cambiare con mezzi tanto modesti? La performance è un’infrastruttura dell’attenzione che i musei possono imparare, mantenere, condividere. Cominciate con una stanza, un produttore, una partitura. Aggiungete ospitalità e tempo. Ripetete. Il resto seguirà. E se non siete convinti, andateci con qualcuno a cui tenete. Osservate come uscite entrambi – forse più lentamente, o più rumorosamente, o con una nuova curiosità per lo spazio che vi separa. Quel cambiamento è il lavoro stesso. È questo il momento. Proprio qui. Proprio ora.
Le immagini sono state realizzate durante l’evento “In the Moment. Performance at the National Museum”(25‑26 ottobre 2025) al Nasjonalmuseet di Oslo, che ha ospitato le performance di Meredith Monk, Elina Waage Mikalsen & Jassem el Hindi e SAGG Napoli. Courtesy Nasjonalmuseet/Frode Larsen.