Basilea. Balthus e il linguaggio del colore

La Fondazione Beyeler dedica una retrospettiva sull’opera del grande artista francese, lasciando che siano i capolavori in mostra a evocarne la visione sospesa nel tempo.

“Balthus”, vista della mostra, Fondation Beyeler, Basilea, Svizzera, 2018

È davvero impossibile affacciarsi alla pittura di Balthus senza approfondirne il dato biografico; la storia unica del pittore, nato nobile Balthasar Kłossowski de Rola (Parigi, 1908-Rossinière, 2001), e i suoi incontri cruciali che da soli basterebbero a tratteggiare la fisionomia più sofisticata della cultura europea del Novecento, che si espresse attraverso l’arte di Balthus in una sintesi densa e lucidissima. La mostra “Balthus”, a cura di Raphaël Bouvier e Michiko Kono, ha il merito di riassumere quel progetto di vita e sguardo unico sulle cose, in un percorso concentrato in 40 opere: tutte importanti, se non addirittura fondamentali nella carriera dell’artista, in un allestimento che utilizza sapientemente il linguaggio del colore per sottolineare i temi e le atmosfere delle opere.  

Precocissimo talento, nel 1919, appena undicenne, realizzò la storia illustrata intitolata Mitsou dove si racconta l’incontro tra un ragazzino e un gatto che poi infine perderà. Il libretto fu pubblicato due anni dopo, con una prefazione del grande poeta Rainer Maria Rilke, che ebbe una relazione con la madre del pittore: uno dei tanti intellettuali e artisti che, come già accennato, incrociarono e arricchirono la vicenda umana di Balthus. Pittore autodidatta, Balthus impara i segreti della composizione e della forma imitando appassionatamente i dipinti dei grandi maestri della pittura italiana quattrocentesca: da Paolo Uccello a Piero della Francesca, che copiò dal vivo ad Arezzo, durante il suo soggiorno in Italia nell’estate del 1926. Così come imparò a far coesistere quei modelli con la lezione del colore, del gesto espressivo e rinnovato dei francesi Bonnard, Vuillard e Derain, autori che Balthus frequentò grazie alla sua famiglia, esponenti dell’élite culturale parigina. Proprio di quell’atmosfera, di quell’idea di “mondo” sono testimonianza alcune delle prime tele, qui esposte alla Beyeler, come Orage au Luxembourg e Le Jardin du Luxembourg (L’Automne?), entrambe 1928, che appaiono oggi quasi come appunti o bozzetti di quelle che poi saranno le sue opere più note, indicano già una precisa posizione fortemente pittorica, anti-avanguardistica e assorta nella contemplazione della vita.

Balthus, Thérèse, olio su cartone su legno, 100.3 x 81.3 cm, 1938. The Metropolitan Museum of Art, New York. Lascito di Mr. e Mrs. Allan D. Emil, in onore di William S. Lieberman, 1987. Copyright Balthus. Foto: The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze
Balthus, Thérèse, olio su cartone su legno, 100.3 x 81.3 cm, 1938. The Metropolitan Museum of Art, New York. Lascito di Mr. e Mrs. Allan D. Emil, in onore di William S. Lieberman, 1987. Copyright Balthus. Foto: The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze

Balthus dovette attendere fino al 1943 per la sua prima mostra (a Parigi, da Pierre Leob) dove espose, senza alcun successo commerciale, i risultati di quei primi intensi anni di lavori. Di quel periodo altresì decisivo, nella definizione dei suoi temi e dei suoi modi, sono presentate opere come Pierre et Betty Leyris e l’altra tela fondamentale del 1933 intitolata La Rue che manifestano la completa articolazione della dimensione erotica e temporale dell’artista: i corpi e i gesti dipinti sono immortalati in quel momento congelato che diventerà la cifra stilistica e concettuale più famosa di Balthus. In Pierre et Betty Leyris l’apparizione del corpo femminile è completamente offerta allo sguardo in un momento eterno, eppure fragilissimo. In La Rue, I movimenti e le attività umane sono come cristallizzate e proiettate in una dimensione eterna, quella "durata fuori dal tempo" che il poeta e critico Yves Bonnefoy definì “realismo dell’improbabile”.

La pittura è un linguaggio che non può essere rimpiazzato con un altro linguaggio

Se qualcosa di simile fu già espresso nella Metafisica, Balthus calò in quell’immobilità, una pulsante presenza erotica così come una sottile ma vibrante dimensione ironica, totalmente estranea in autori come De Chirico, probabilmente frutto della passione di Balthus le illustrazioni contenute nei libri per l’infanzia. Per quanto deludenti furono i risultati della mostra alla galleria Leob, grandi intellettuali e artisti come Breton e Picasso riconobbero subito l’importanza di quegli esisti pittorici. Picasso acquistò uno dei suoi capolavori, Les Enfants Blanchard (1937) che stette per tutta la vita nella collezione del pittore spagnolo. Soltanto un anno dopo Pierre Matisse espone a New York le tele di Balthus, iniziando così a consacrarne il riconoscimento che da allora iniziò a valergli mostre e retrospettive in tutto il mondo.

Balthus, passage du commerce-saint-André, olio su tela, 294 x 330 cm, 1952–1954. Collezione privata, copiright Balthus. Foto Mark Niedermann
Balthus, passage du commerce-saint-André, olio su tela, 294 x 330 cm, 1952–1954. Collezione privata, copiright Balthus. Foto Mark Niedermann

A ciascuna delle opere esposte merita di essere corrisposto uno sguardo prolungato e attento per coglierne gli elementi che descrivono per ogni tela un intero mondo, autosufficiente e contenuto nel perimetro di spazi perfettamente calibrati. Basta osservare uno dei suoi lavori più noti e conturbanti; Thérèse rêvant (1938) per potervi rintracciare influssi sottilmente complessi che lambiscono senza manierismi tutta la storia della pittura occidentale, giungendo a un realismo apparentemente minuzioso e impassibile, ma, nel profondo insidioso, allucinato, inquietante, che evoca, sia sul piano tematico che su quello formale, un’anima surrealista, che tuttavia rimane costantemente sottaciuta, ma attiva. Come un tizzone ardente nascosto sotto le ceneri.
La realtà e la figurazione restò sempre centrale in Balthus, che nella sua vita lambì praticamente tutte le avanguardie senza mai farsi sedurre dal dogma del moderno. Anzi: per Balthus “La pittura è un linguaggio che non può essere rimpiazzato con un altro linguaggio”, che doveva necessariamente rimanere sempre in un alfabeto di segni riconoscibili. Dichiarò l’artista: “Troverò sempre anche i peggiori quadri che tentano una qualche forma di rappresentazione meglio dei migliori dipinti inventati”.

La realtà e la figurazione restò sempre centrale in Balthus, che nella sua vita lambì praticamente tutte le avanguardie senza mai farsi sedurre dal dogma del moderno

Come abbiamo ricordato, il debutto artistico di Balthus avvenne da bambino con le illustrazioni per Mitsou. Di quella comunione tra essere umano e felino Balthus (eguagliato forse solo da Leonor Fini), fu il pittore di gatti per eccellenza. L’animale-feticcio è costantemente rievocato in una suprema, definitiva ambiguità di identificazione (Le Chat au miroir III, 1989-94): rappresentando quella silenziosa e morbosa vita nelle case, che ha come testimone un gatto, la sua giocosità improvvisa ma anche la diabolica lussuria in dipinti come Thérèse rêvant. Uno straordinario nitore, una trasparenza luminosa, una tranquillità sovraumana caratterizzano opere dipinte proprio in Svizzera, come Paysage de Champrovent, (1941-43/1945) dove l’artista riparò durante la seconda guerra mondiale: una scena così radicalmente lontana dal conflitto bellico dove l’atmosfera sembra priva di aria, senza atmosfera, in una suprema condizione di incorruttibilità che vide in Balthus il sommo custode.

Un ritratto fotografico di Balthus, Balthasar Klossowski de Rola, 1948
Un ritratto fotografico di Balthus, Balthasar Klossowski de Rola, 1948
Titolo della mostra:
Balthus
Date di apertura:
2 settembre 2018 – 1 gennaio 2019
Curatori:
Raphaël Bouvier, Michiko Kono
Sede:
Fondation Beyeler
Indirizzo:
Baselstrasse 101, 4125 Basilea, Svizzera

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