Berlino. Jordan Wolfson e la distorsione del reale

Allo Schinkel Pavillon, i video, le installazioni e le fotografie dell’artista newyorkese affrontano temi come la violenza, il potere seduttivo del “ripugnante” e il concetto di realismo.

Lo Schinkel Pavillon è stato realizzato nel 1969 da Richard Paulick, architetto noto per alcune delle sezioni più riuscite della Karl-Marx-Allee, arteria che, per il resto, appare un lungo copia e incolla di realismo socialista decorativo che taglia Berlino partendo da Alexanderplatz fino alla Porta di Francoforte, a est della città. La via, allora Stalin-Allee, fu costruita in brevissimo tempo ed era destinata a rappresentare le ambizioni della Repubblica Democratica Tedesca; a suscitare ammirazione agli occhi occidentali proiettando uno stile di vita equo, sereno, nuovo: un boulevard monumentale per lo svago, la socialità, ma anche per parate celebrative della giovane DDR. Ironicamente, nel giugno del 1953, a causa di un inasprimento delle condizioni contrattuali per i lavoratori che la stavano fabbricando, nacquero lì i moti operai sedati con vigore da reparti dell’esercito sovietico schierato in Germania orientale. Le crude immagini della repressione circolarono nei media occidentali come uno svelamento: la frizione tra la scenografia idilliaca di una società utopica e gli sbrigativi, brutali metodi di stampo staliniano che saranno denunciati pochi anni dopo da Nikita Krusciov gelando le relazioni tra Unione Sovietica e i comunisti occidentali.

Fig.1 Jordan Wolfson, Riverboat Song, 2017, video installation, 7:27 min. © the artist; courtesy of Sadie Coles HQ, London. Photo Andrea Rossetti
Fig.2 Jordan Wolfson, Riverboat Song, 2017, video installation, 7:27 min. © the artist; courtesy of Sadie Coles HQ, London. Photo Andrea Rossetti
Fig.3 Jordan Wolfson, Riverboat Song, 2017, video installation, 7:27 min. © the artist; courtesy of Sadie Coles HQ, London. Photo Andrea Rossetti
Fig.4 Jordan Wolfson, Riverboat Song, 2017, video installation, 7:27 min. © the artist; courtesy of Sadie Coles HQ, London. Photo Andrea Rossetti
Fig.5 Jordan Wolfson, Schinkel Pavillon, Berlin, 2018. Photo Andrea Rossetti

Un momento di rottura o, come lo definirebbe l’artista newyorkese Jordan Wolfson, una “distorsione”: l’attimo in cui un episodio intenso e imprevedibile irrompe violentemente nel quotidiano al punto da modificare, anche solo per qualche istante, quanto è lecito attendersi dal mondo. Accade in uno dei lavori in mostra, Real Violence (2017) presentato per la prima volta all’ultima edizione della Biennale del Whitney: il visitatore è invitato a indossare un visore per realtà virtuale e, al termine di un breve conto alla rovescia, è catapultato sulle strade di New York di fronte all’artista armato con una mazza da baseball e a un uomo inginocchiato sull’asfalto. Dopo qualche istante, Wolfson inizia a picchiare lo sconosciuto fino a ridurne il viso in una poltiglia informe. Il lavoro ha, naturalmente, fatto parlare molto di sé e mette in scena una violenza quasi insostenibile come “materia prima” – puro fenomeno, privo di giudizi espliciti – che attraversa il corpo dello spettatore trasformandolo in elemento scultoreo: in maniera più evidente, con un movimento di camera all’inizio della simulazione che costringe chi guarda a una torsione fisica.

La conclusione della breve esperienza e il ritorno nello Schinkel Pavillon sono le ultime “distorsioni”: com’è cambiato lo sguardo nell’attimo in cui i grattacieli di New York tornano a essere il salone ottagonale, in cui vittima e carnefice lasciano il posto all’allegro vociare del pubblico dell’esibizione? La tecnologia della realtà virtuale è prosciugata di potenzialità interattive (non c’è modo di cambiare il tragico corso degli eventi) e usata per dar forma alle preoccupazioni principali del lavoro, ovvero il potere seduttivo del “ripugnante” – lo spettatore può rivolgere lo sguardo altrove, ma è calamitato dal linciaggio – e una riflessione sul concetto di realismo: la circolazione di scene brutali in rete ha scavalcato i modi di rappresentazione della violenza, nell’ultimo secolo appannaggio dell’industria cinematografica.

Jordan Wolfson, Real violence, 2017. © the artist; courtesy of Sadie Coles HQ, London. Photo Andrea Rossetti

Real Violence è una finzione che ambisce a svolgersi secondo il linguaggio “realistico” nato dal matrimonio tra elettronica di consumo e piattaforme social, e non quello di Hollywood. Occupa gli spazi superiori del padiglione, il video Riverboat Song (2017): l’io narrante, un incrocio tra Huckleberry Finn e Pinocchio in abiti consunti, danza su Work di Iggy Azalea indossando tacchi a spillo. D’improvviso, gli compaiono sul corpo seni e natiche vistose che lascia cadere, come protesi, con un movimento d’anca prima di lanciarsi in un soliloquio – che s’immagina rivolto alla partner – in cui rivela una forma estrema e malevola di narcisismo: intima, manipolativa e distaccata. Nel farlo, muta in una famiglia di animazioni antropomorfe, come per moltiplicare, nascondere e diluire la responsabilità individuale. Poi ci osserva mentre si contempla in uno specchio, traendone un piacere infantile, fino a raggiungere il climax nel momento in cui, dopo essersi tirato giù i pantaloni, comincia a urinare fiotti che s’innalzano simili a giochi d’acqua di fontane pubbliche. Beve la propria pipì, ci si sciacqua il viso con palpabile eccitazione.

Fig.1 Jordan Wolfson, Untitled, 2017. © the artist; courtesy of Ringier collection, Switzerland. Photo Andrea Rossetti
Fig.2 Jordan Wolfson, Untitled, 2017. © the artist; courtesy of Ringier collection, Switzerland. Photo Andrea Rossetti
Fig.3 Jordan Wolfson, Untitled, 2017. © the artist; courtesy of Ringier collection, Switzerland. Photo Andrea Rossetti
Fig.4 Jordan Wolfson, Untitled, 2017. © the artist; courtesy of Ringier collection, Switzerland. Photo Andrea Rossetti
Fig.5 Jordan Wolfson, Untitled, 2017. © the artist; courtesy of Ringier collection, Switzerland. Photo Andrea Rossetti

L’ultimo pezzo in mostra è una scultura composta da un disegno di due streghe – una delle quali molto simile a Hillary Clinton – che cuociono nel proverbiale pentolone lettere cartacee, e da due giubbe di pelle appese nel vuoto, coperte di borchie e disegni raffiguranti uomini che espellono demoni e teschi dalla bocca. Segni di una trasgressione esausta, resa pura connotazione: come nel resto della mostra, Wolfson maneggia temi delicati e scabrosi – narcisismo e violenza – superando i dossi di facili polemiche, con opere che prendono ispirazione e sono attraversate – con successo formale e concettuale – da formati vernacolari, dalle loro manifestazioni e ricadute sociali.

Fig.1 Jordan Wolfson, still di Riverboat Song
Fig.2 Jordan Wolfson, still di Riverboat Song
Fig.3 Jordan Wolfson, still di Riverboat Song

Lo scivolamento della nozione di realismo, la porosità e le reazioni chimiche che nascono dai contatti tra la realtà – qui definita nei termini di una serie di paesaggi mediatici ricorrenti e rappresentazioni che hanno l’avallo del consenso sociale – e l’industria delle arti visive sono messi in gioco e coreografati in una mostra laconica e intensamente intrigante.

  • Jordan Wolfson
  • 10 febbraio - 1 aprile 2018
  • Schinkel Pavilion
  • Oberwallstrasse 1, Berlino