La casa può essere prigione, la casa può essere un luogo sicuro, la casa è memoria. Women House, curata da Lucia Pesapane e Camille Morineau (co-direttrici della Monnaie de Paris, edificio della zecca della Francia), è una mostra che indaga, attraverso l’arte contemporanea, il rapporto tra la donna e lo spazio domestico. Fa parte del progetto a lungo termine delle curatrici di arrivare a un racconto della storia dell’arte che sia paritario nei generi. Ciò che rende particolarmente brillante la mostra è che nonostante sia femminista, non è questo il suo aspetto prevalente. Quello femminile, principalmente “è un punto di vista” spiega Lucia Pesapane, ma il fine politico non è il tema della mostra – non siamo più negli anni ’70 – ne è una conseguenza (altrettanto importante). Women House è una raccolta di opere d’arte intorno a una semantica definita: quella della casa, delle mura domestiche, che ne offre una panoramica nel tempo e nello spazio, a partire dalla “Womanhouse” di Judy Chicago e Miriam Schapiro del 1972.
La casa come prigione negli anni delle lotte femministe del mondo occidentale, o come protezione. “Une chambre à soi”, un rifugio in cui coltivare se stesse, scriveva Virginia Woolf. Il leitmotiv di queste artiste è che per loro “costruire s’est se construire”: attraverso l’arte costruiscono il proprio sé. L’esibizione si apre con un calendario che fa riflettere: il primo Pritzker Prize vinto da una donna è del 2004, si tratta di Zaha Hadid. Prima nulla, e dopo quasi nulla (nel 2011 Kazuyo Sejima). Ed è proprio a partire dell’architettura, di dominio maschile, che si svolge il tema della casa.
Tra le opere di punta ci sono pezzi “abitabili” come la teiera di Joana Vasconcelos, lo Spider “L’araignée” di Louise Bourgeois, un’importante sezione dedicata alla Nana Maison di Niki de Saint Phalle – che voleva essere considerata al pari di Antonì Gaudì e lo dimostra nel giardino dei tarocchi in Toscana. Dopo il calendario si è introdotti nelle diverse sezioni, che si svolgono nei magnifici spazi della Monnaie (pavimenti in marmi in bianco e nero, stucchi bianchi e dorati ottocenteschi, vista sulla Senna, specchi per selfie).
Ma è necessario che ci siano mostre incentrate sulle artiste donne? Secondo la curatrice Lucia Pesapane: “sì, è una fase di passaggio: bisogna fare in modo che le artiste abbiano lo stesso peso sul mercato. E soprattutto negli stessi tempi: l’artista Yayoi Kusama ha 90 anni e ha valore ma non raggiungerà mai Jeff Koons che ha battuto ogni record a 70 anni”. Per le curatrici si parte proprio da qui, dall’esporre le opere di donne nei luoghi della cultura. “È un’operazione politica che avviene negli spazi pubblici, nelle istituzioni”.
La prima sezione è “Desperate Housewives” casalinghe disperate, e si parla dell’ambiente domestico negli anni ’70 in Europa e Stati uniti. Furono anni di attacco al sistema patriarcale, come esplicitato nell’opera di Birgit Jürgenssen che fa del suo corpo una cucina a gas ambulante. Poi c’è la sezione “La maison, cette blessure”, in cui la casa è percepita come una prigione. Si veda il video di Lydia Schouten, che in una performance è vestita di una tutina umida, entra ed esce da una gabbia, strofinandosi sulle sbarre. C’è la sezione “Une chambre à soi”, che fa riferimento al saggio di Virginia Woolf del 1929. Se la casa diventa un simbolo di prigione e alienazione per alcune, per altre è una fonte di ispirazione e di reinvenzione del sé. Il lavoro del 2007 di Zanele Muholi, artista sudafricana, propone delle foto di donne lesbiche che amoreggiano protette dalle mura della casa, ambiente che ha il ruolo del rifugio.
C’è la parte “Maison de poupée”, come “Casa di bambola”, la pièce di teatro di Henrik Ibsen, in cui la protagonista Nora è trattata come un accessorio della vita borghese. Nell’infanzia si formano gli stereotipi femminili più forti. Qui l’artista Penny Slinger nella sua “Exorcism House” attacca violentemente il sistema, ricreando una casa di bambole dove si svolgono scene dell’orrore fantasmagoriche, che l’artista concepisce come “paesaggi interiori”. Ha un approccio politico il capitolo “Mobile homes” in cui le artiste rispondono a un mondo caratterizzato dalle migrazioni. Lucy Orta propone “Body architecture” (1996), tende collettive da portare come dei vestiti. Importante è la sezione “Femme Maison”, mututato dal titolo dell’opera di Louise Bourgeois (del 1985) che riassume la condizione del genere femminile come “nutriente, consumatrice, consumata”.
Per metonimia la donna diventa la casa che impersonifica. Molto poetica è la sezione “Empreints”, “tracce”, in cui si parla di assenza, di luoghi dell’anima perduti, e del corpo. Ecco l’opera di Nazgol Ansarina che ricrea un muro distrutto a Teheran. Isa Melsheier ricrea un giardino sospeso progettato da Le Corbusier per Charles de Beistegui, negli anni ’20: uno spazio con le mura alte solo 1,50, situato vicino agli Champs Élysées. L’esibizione è ricca, e dopo Parigi andrà all National Museum of Women in the Arts in Washington D.C dal 8 marzo del 2018. Tra le mura della Monnaie non si avverte l’aspetto pesante della lotta femminista, ma se ne percepisce la forza. E in ogni caso, qui come ovunque e al di là del genere, parlano le opere d’arte.
- Titolo:
- Women House
- Date di apertura:
- 20/10/2017- 28/01/2018 (Monnaie, Paris) 8/03/2018 - 20/05/2018 (National Museum of Women a Washington)
- Curatrici :
- Lucia Pesapane e Camille Morineau
- Sedi:
- Monnaie de Paris, National Museum of Women Washington