Il suo percorso di ricerca fotografica e artistica compie 70 anni nel 2018 ma Nino Migliori non ha ancora placato la sua voglia di sperimentare. Il suo lavoro è quanto mai eterogeneo. Dal neo-realismo delle serie Gente del Sud e Gente dell’Emilia, che documentano l’Italia in piena ricostruzione, al lavoro più concettuale di Muri fino alle ricerche sperimentali più radicali dei Pirogrammi e dei Cliché-verres. Ed è proprio questo spirito avanguardista, portato avanti sin dagli esordi nel mondo della fotografia, ad avere affascinato Giuseppe Lezzi e Emanuela Baccaro di M77 Gallery che hanno ospitato “Il tempo, la luce e i segni”, curata da Michele Buonuomo e centrata su trent’anni molto significativi della sua attività. Incontriamo Migliori accanto ai Muri, collocati in apertura della mostra.
Colpisce la varietà degli esiti formali dei lavori esposti. Si potrebbe pensare che non sono il frutto della stessa mano.
Sono entrato molto giovane nel mondo della fotografia. Era il 1948, avevo 22 anni. C’erano due scuole di pensiero allora in Italia: quella di Giuseppe Cavalli a Fermo, che portava avanti un pensiero ‘sano’, legato alla luce; e quella di Paolo Monti a Milano, che prediligeva un’immagine più concreta ma legata al buio. Io ho cominciato a fare le mie esperienze, sono stato invitato a entrare in entrambi i gruppi, ma ho portato avanti un mio pensiero. Cercavo la rottura con le tradizioni fotografiche, che non mi convincevano del tutto, anche se mi appartenevano. Cominciai con la sperimentazione off camera, usando i materiali della fotografia: sviluppo, fissaggio, carta, luce, buio…
Era un approccio inedito per l’epoca.
Assolutamente. Man Ray aveva lavorato in modo simile, ma con i fotogrammi. Io invece bruciavo le pellicole, dieci anni prima di Burri, creavo dei segni e li ingrandivo fino ad arrivare a dieci metri. Poi ho cominciato il lavoro di documentazione sui muri, che costituivano uno sfogo creativo che sapeva esprimere la storia contemporanea. Quel lavoro di documentazione è durato 30 anni, volevo seguire lo sviluppo del modo di esprimersi dell’uomo. Gli altri miei lavori sperimentali non interessavano nessuno, venivano sprezzati.
Quando hanno cominciato a destare interesse?
Oltre vent’anni fa, quando Arturo Quintavalle organizzò un’antologica sul mio lavoro all’Università di Parma e mi affidò la cattedra di perfezionamento post laurea triennale in “sperimentazione fotografica”, un indirizzo che non esisteva prima. Davo agli studenti piena e assoluta libertà di esprimere i propri stati d’animo con macchina fotografica e telecamera, favorivo la contaminazione tra le loro ricerche, e li aiutavo a orientarle. Le tesi erano scritte solo con le immagini. La fotografia è assimilabile alla scrittura e, rispetto alla parola, ha il vantaggio di essere traducibile in qualsiasi lingua.
La tecnica quanto peso ha nella fotografia?
Ha un’importanza relativa, quel che conta sono le idee.
Fotografi in analogico o in digitale?
Io non sono un conservatore. Tutte le novità servono a migliorare. Lavoro in digitale, da quando c’è. Ma appena saranno a disposizione i sensori userò quelli.
Sensori?
Quelli della comunicazione sensoriale. In alcune università americane stanno portando avanti degli studi per aiutare a comunicare le persone con difficoltà di parola. Usano dei sensori da applicare alle tempie per trasmettere dei segnali. Sono convinto che in futuro si troverà un modo per trasmettere in bianco e nero, quindi anche le immagini.
La tua ricerca è cambiata nel corso del tempo?
Si evolve. Oggi penso a forme di utilizzo completamente diverse. Vorrei trovare un oggetto che mi interessa – un albero, un’automobile – riempirlo di gelatina fotografica e poi al buio proiettarci sopra quello che mi pare: un nudo di donna, un soggetto politico, un avvenimento sportivo… e farlo diventare tridimensionale, dinamico e in movimento.
La molla che ti spinge, sia nella scelta dei soggetti che della tecnica, è la curiosità.
Certo. È quella che cerco di trasmettere ai giovani, anche ai giovanissimi. Ho lavorato per oltre due anni con i bambini del MAST di Isabella Seragnoli, a Bologna, bambini di due anni non condizionati dall’insegnamento scolastico o famigliare. È bastato che capissero che a mettere la mano sullo sviluppo e poi sulla carta diventa nera e che appoggiandola sul fissaggio diventa bianca per imparare a esprimersi. Dopo una decina di prove hanno creato discorsi stupendi di un’assoluta libertà creativa. Questa attività, filmata da equipe televisive che hanno documentato anche le loro motivazioni creative, darà luogo a una grande mostra al MAXXI di Roma in gennaio-febbraio. Una volta pensavo alla fotografia come a una ragazza un po’ attempata, ma dopotutto ancora giovane. Ora credo che sia una bambina.
Cosa pensi del proliferare delle immagini sui social?
Credo sia un fenomeno positivo. La gente ha bisogno di impossessarsi di un mezzo per comunicare anche solo un pensiero, un’immagine, un selfie, una cazzata del genere – perché la maggior parte sono cazzate. Ma dato che sui social transitano milioni di immagini al giorno significa che si tratta di un discorso globale che prende darà luogo a qualche nuovo modo di esprimersi in futuro.
Hiroshi Sujimoto sostiene che il web è simile alla carta da parati, che non vale nulla.
Io penso il contrario. Quello che è di massa ha un valore, si tratta solo di trovarlo. Anche le scritte sui muri non hanno valore in sé, ma rappresentano il momento. Ho letto di gruppi di writer che vanno nelle case abbandonate e le trasformano in luoghi che diventano ricercati. Il valore c’è sempre.
- Titolo:
- Il tempo, la luce e i segni
- Date di apertura:
- fino al 27 gennaio 2018
- Artista:
- Nino Migliori
- A cura di:
- Michele Buonuomo
- Luogo:
- Galleria M77
- Indirizzo:
- Via Mecenate 77, Milano
