A cent’anni da adesso

A Palazzo Reale di Milano, un’imponente rassegna di 100 opere, realizzate tra il 1967 e il 1981, rende omaggio a Vincenzo Agnetti, autore precoce, fra i più sottili e salaci del Concettualismo italiano.

Vista della mostra “Agnetti. A cent’anni da adesso”, Palazzo Reale di Milano. Photo Franco Russo
L’ingresso alla mostra è gratuito. Ma va meritato, con un lungo soggiorno. Si entra ed esce da molte stanze, facendo passare qualcosa come 100 opere, realizzate tra il 1967 e il 1981. Ogni tanto, come una farfalla che appare e scompare, negli stretti passaggi che conducono da una stanza all’altra, si affaccia una foto d’epoca di Vincenzo Agnetti, in bianco e nero, appesa un po’ in alto, così che si finisce per vederla di sbieco, all’ultimo.
Fig.1 Vista della mostra “Agnetti. A cent’anni da adesso”, Palazzo Reale di Milano. Photo Franco Russo
Fig.1 Vista della mostra “Agnetti. A cent’anni da adesso”, Palazzo Reale di Milano. Photo Franco Russo
Da lì, Agnetti insiste a guardarci, con la fronte aggrottata, il capo inclinato, l’espressione leggermente livida, preso in un suo pensiero, o dietro gli occhiali a specchio, mentre gli sfiliamo davanti, attraversando la soglia. Gli si restituisce l’occhiata, nel mentre che sgattaioliamo o ci stringiamo per passare, perché chiamati da una voce – la sua – o da un’immagine. È a un palmo dal naso, eppure, ci appare lontanissimo, in tutta la sua persona inafferrabile. È questa una soluzione allestitiva particolarmente felice, non convenzionale, in una retrospettiva che vuole rendere omaggio, qui nel centro di Milano, a Palazzo Reale, a un autore precoce (“pittore, scultore, saggista, scrittore e teorico ma anche e soprattutto poeta”, scriveva Vanni Scheiwiller) fra i più sottili e salaci, nato e morto anzitempo a Milano (settembre 1926-settembre 1981), del cosiddetto Concettualismo italiano.

 

La mostra ha in sé qualcosa di cronometrico – nel senso di esatto, puntualissimo; pure, di agonistico, precipitato (l’immagine della locandina, una foto della serie La lettera perduta del 1979, mostra l’artista che inciampa e si rovescia a terra, buttando all’aria molte missive). La mostra, dicevamo, s’intitola “A cent’anni da adesso”, perché era una frase che ripeteva spesso, ricorda la figlia Germana, presidente dell’Archivio Vincenzo Agnetti che ha curato questa antologica assieme a Marco Meneguzzo, a far notare come il tempo – ciclico, dilatato, usurato – sia stato il cardine attorno a cui ha errato tutta la produzione dell’artista. Prova ne sono qui, per esempio, ma gli esempi sono tanti, troppi, le mute meridiane Tempus Mentis (1970-71), che s’incontrano subito all’ingresso, le cui ombre lunghe fanno risuonare non ore ma pensieri, carezzando, nel loro lento ruotare, frasi che hanno come oggetto il tempo stesso. Accanto, è esposta un’opera che schiaccia su se stesso il volto di una donna come una lattina pestata da un’automobile (L’età media di A, 1973). Ci sono poi i famosiTelegrammi”, Quattordici proposizioni sul linguaggio portatile, sempre del ’73, di cui Agnetti è emittente e ricevente, che si direbbero pure menati in giro dall’ombra flemmatica di un grande gnomone, e le quattro grandi, buie vetrate delle Stagioni, esposte nel 1980 al PAC di Milano nell’ultima mostra dell’artista. In Agnetti il tempo è cosa superata: Obsoleto è il, diciamo così, romanzo-manifesto che pubblica con Scheiwiller nel 1963, in mille copie, con copertina di Enrico Castellani. Pure, in Agnetti il tempo è cosa, ancora, al di là da venire, come dichiara in una sua massima celebre, oggi in bella vista nello studio di via Machiavelli 30, a Milano, vergata su foglio nero con gesso bianco e datata 1975, che dice: “L’artista coglie solo frutti acerbi”.

Fig.12 Vista della mostra “Agnetti. A cent’anni da adesso”, Palazzo Reale di Milano. Photo Franco Russo
Fig.12 Vista della mostra “Agnetti. A cent’anni da adesso”, Palazzo Reale di Milano. Photo Franco Russo
“1, 2, 3, 4…” Un soliloquio di soli numeri arriva a noi confuso per vie interne alla mostra. La voce, baritonale, che pare uscire dal cuore, è quella di Agnetti: dice “6, 7, 8…” Fiutiamo la pista, i numeri si fanno più intelligibili, “1, 2…3”, la voce vive e si perfeziona nell’intonazione, “4…5…6”, finché il velario si divarica, compare un palco vuoto e, tutt’attorno, sessanta bandiere di tutte le nazioni. La voce registrata di Agnetti seguita a dare i numeri, con lenti crescenti e decrescenti, “1, 2…3, 4…5, 6…”, e si va avanti così, per ore. Questa dell’Amleto politico (1973) è una delle opere più note e belle dell’artista, davanti alla quale si tira fuori l’applauso più sincero. Agnetti ha trovato il suo giusto nome chiamandola “un’operazione di teatro statico” (lui che aveva studiato da attore al Piccolo Teatro di Milano con Giorgio Strehler), intendendo cioè uno spettacolo senza movimento, personaggi, testo. Accanto a ogni bandiera c’è una targa di numeri (“un numero è un semplice supporto d’intonazione”, scrive Agnetti, “nei numeri si possono tradurre tutte le lingue del mondo”) e una glossa in cui si affermano alcune cose, per esempio che “Amleto non è uomo del dubbio […] è uno qualsiasi che arringa la folla con il monologo […] Il monologo diventa un comizio senza significati”. Come a dire che, dell’arringa, restano solo il tono, l’enfasi, cioè l’uomo, cioè colui che rende ciò che s’è fatto, sì universale, ma pure incomprensibile, alla portata di tutti.
Nell’Amleto politico si possono dire incise, certo semplificando molto, tutte le arie che Agnetti aveva fino a quel momento fischiettato e che pure riecheggiano nelle opere future. Qui il linguaggio (che per l’artista rappresenta la cultura dominante) è scavalcato. Mette i numeri al posto delle lettere, come qualche anno prima aveva messo le lettere al posto dei numeri, nella sua stranota Macchina drogata (1968), un comune calcolatore Divisumma 14 della Olivetti scardinato negli ingranaggi al punto che, battendo sui suoi tasti disinibiti, escono fuori, per via di certi calcoli, non somme o moltiplicazioni, ma grumi di sillabe, balbettii. A fare propria la preoccupazione della traduzione e della lingua sono soprattutto gli “assiomi”, in questa mostra ce ne sono una trentina, fra i lavori a cui l’artista s’è dedicato con più gusto, dal 1968 al 1977, in cui il discorso, inciso su lastre di bachelite nera, è fatto sì di parole ma anche di numeri, diagrammi, ascisse, ordinate.
Nell’Amleto il pulpito è vuoto, l’oratore è una promessa mancata. Agnetti inizia a fare arte identificandola proprio nell’assenza, e su questa irreperibilità molto insisterà – proprio Assenza è il titolo di una pila di quaderni, folti di annotazioni mai più rilette, compilati negli anni dal ’62 al ’67, gli anni dell’arte-no (durante i quali lo troviamo in Argentina a fare il perito elettronico, o nel deserto del Qatar). Altri casi in mostra sono il suo “autoritratto”, scritto in forma di paradosso su una tavola di feltro: Quando mi vidi non c’ero (1971); le “auto telefonate” (yes) e (No No No) del 1972, con l’artista che porta alle orecchie due cornette del telefono, mostrandosi in ascolto, crucciato, inconsolabile, finché non “scompare”, lasciando i due ricevitori a parlarsi fra di loro; o il Libro quasi dimenticato a memoria (1971), con un buco al centro, svuotato delle parole come un melone a cui sono stati tolti la polpa e i semi. Ma qui il carico di idee è difficilmente liquidabile in poche battute. Dirò solo –  perché mi ha fatto sorridere – dei “feltri-ritratto”, tavole in filo di lana senza ordito, folgoranti nella loro estetica lapidaria e bulinate di telegrafici enunciati che esauriscono tutte le possibilità umoristiche dell’arte concettuale: Ritratto di eroe: Illuminato aiutato e ucciso secondo le regole del gioco (1969); Ritratto di attore: Sempre arrivò preceduto da se stesso (1972); Ritratto di ignoto: Coprendo il volto cercava di assomigliarsi (’72).
C’è poi un’opera, in questa mostra, in cui spira una brezza di sottile poesia: si tratta di sette fotografie montate su alluminio che assieme titolano Progetto panteistico n.2 Foglia (1972). Mentre le osservo, un uomo mi si affianca, in silenzio. Assieme, volgiamo gli occhi alla prima foto, un nodo di linee scomposte, spostandoli poi sulla seconda, dove la diramazione di linee si fa più organica disponendosi secondo le venature di una foglia, e dove c’è scritto, con una grafia infantile: “Arrampicarsi su un albero”. Nella terza foto ecco spuntare una foglia, e una parola: “Aspettare”.
Fig.12 Vista della mostra “Agnetti. A cent’anni da adesso”, Palazzo Reale di Milano. Photo Franco Russo
Fig.13 Vista della mostra “Agnetti. A cent’anni da adesso”, Palazzo Reale di Milano. Photo Franco Russo
Spostiamo in concorso e meccanicamente gli occhi da una foto all’altra, finché tutte le foglie non completano il disegno, disponendosi a raggiera attorno al picciolo; in tutte riecheggia la parola “Aspettare”, “Aspettare”, “Aspettare”. L’uomo mi precede nella lettura dell’ultima foto, le foglie ora sono riconoscibilo, e m’invitano a leggere l’ultima scritta: “Aspettare che crescano foglie dalla propria pelle”. Sulle prime non capisco, ma annuisco. Facciamo allora per presentarci, lui mi porge la mano e, mentre gliela stringo, l’occhio mi cade su una scritta che ha tatuata sull’avambraccio: Chi entra esce, Chi esce entra. Lo riconosco, è un assioma di Agnetti. E allora capisco, e capisco anche tutto quello che finora non avevo compreso di questa mostra, e gli restituisco il sorriso.
© riproduzione riservata

fino al 24 settembre 2017
Agnetti. A cent’anni da adesso
Palazzo Reale di Milano
Curatore: Marco Meneguzzo

Ultimi articoli di Arte

Altri articoli di Domus

Leggi tutto
China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram