Piccoli universi muti

La Triennale di Milano accosta l’opera di Thea Djordjadze e di Fausto Melotti: una sorta di dialogo, al limite del silenzio, di due artisti funambolici, accomunati dal favore verso i materiali modesti.

Vista della mostra di Thea Djordjadze Fausto Melotti alla Triennale di Milano. Photo © Gianluca Di Ioia
Questa nuova mostra ospitata dalla Triennale di Milano (visitabile fino al 27 agosto) trova il suo punto di forza nell’accostamento, inedito, riuscitissimo, che mette in dialogo l’opera della georgiana Thea Djordjadze (artista nata a Tbilisi nel 1971, trasferitasi in Germania in seguito alla guerra civile, dove ha studiato alla Staatliche Kunstakademie Düsseldorf con Rosemarie Trockel e dove oggi vive e lavora) con il nostro Fausto Melotti (immenso scultore e ceramista fuori dell’ordine, ma anche poeta, pianista, ingegnere elettrotecnico, nato nel 1901 nella Rovereto di Depero e Carlo Belli, che a Milano trascorrerà gran parte della sua vita – all’Accademia di Brera ha Adolfo Wildt come insegnante e Lucio Fontana come compagno di studi – fino alla morte, sopraggiunta nel 1986).
Fig.1 Vista della mostra di Thea Djordjadze Fausto Melotti alla Triennale di Milano
Fig.1 Vista della mostra di Thea Djordjadze Fausto Melotti alla Triennale di Milano
Qualcosa di simile a un dialogo, per la verità, perché Djordjadze (rappresentata in Italia dalla galleria milanese Kaufmann Repetto), eliminando le pareti provvisorie dello spazio al primo piano della Triennale e spalancando i finestroni progettati da Muzio, mette qui a una distanza ravvicinatissima, naso-naso, con occhio vigile e allenato agli accordi cromatici e materici, i suoi minimali assemblage scultorei, eleganti a loro modo – sorta di gracili relitti di una civiltà appena trascolorata (verrebbe da chiamarle sedute, consolle, mensole, piattaforme, ma non lo sono, non sono solo questo) – con quei piccoli capolavori d’innocente volontà (in questa mostra se ne contano 25, realizzati fra gli anni Quaranta e Ottanta) che sono i Teatrini di Melotti, scatole sceniche abitate da impalpabili figure e attraversate da quella stessa aria di provvisorietà che sorregge le sue prime sculture astratte degli anni Trenta. Se dialogo c’è, è al limite del silenzio. Ed è il silenzio che fa la musica.
Fig.2 Vista della mostra di Thea Djordjadze Fausto Melotti alla Triennale di Milano
Fig.2 Vista della mostra di Thea Djordjadze Fausto Melotti alla Triennale di Milano
Il titolo dell’esposizione (come pure dell’insieme delle opere di Djordjadze) — Abbandonando un’era che abbiamo trovato invivibile — appare a una prima letta distante, nella sua drammaticità, perlomeno dal mondo melottiano, che è sì crucciato, ma di un’ansietà che ha più del sentimentale che dello struggente. “Inizialmente doveva essere All the World’s a Stage (Tutto il mondo è un palcoscenico), tratto dal celebre monologo del Come vi piace di Shakespeare”, racconta il curatore Lorenzo Giusti, che ha molto bene arrangiato la mostra in complicità con Edoardo Bonaspetti, direttore artistico della Triennale, e in stretta collaborazione con la Fondazione Fausto Melotti. “Lo trovavo rappresentativo dei principi del meta teatro che ci hanno ispirato fin dall’inizio. Alla fine però Thea ha deciso di muoversi in maniera più libera, interpretando un passaggio del discorso scritto da Jean Cocteau nel 1941 per la morte di Jean-Michel Frank, un grande uomo di teatro e straordinario designer minimalista: due mondi che in questo progetto si incontrano e interagiscono”.
Fig.3 Vista della mostra di Thea Djordjadze Fausto Melotti alla Triennale di Milano
Fig.3 Vista della mostra di Thea Djordjadze Fausto Melotti alla Triennale di Milano
La mostra arriva a noi limpida, lieve, pervasa di quella metafisica agitata che è propria di Melotti (si ricorda il suo libro Lo spazio inquieto, e qui in Triennale a questo sentimento è dedicata un’altra mostra, ancora in corso, La terra inquieta), ma come caricata di una forza alienante, seppur di calmo mordente, impressa da Djordjadze, che dà alle sue opere nuova linfa. Ad accomunare i due artisti, funambolici nel loro operare in assenza di peso, il favore verso l’arte applicata, o minore, l’arrangiamento provvisorio, i materiali modesti: il legno, l’acciaio, il vetro, il cartone, la stoffa, la cartapesta per Djordjadze; la terracotta, le garze, le pezzuole, le tessere del domino, i gessetti colorati, le catenelle di ottone, gli spaghi, e ancora i pezzetti di vetro e il cartone ondulato per Melotti. Rimasugli di bottega, fondi del quotidiano, cose trovate qua e là e giuntate assieme.
Fig.4 Vista della mostra di Thea Djordjadze Fausto Melotti alla Triennale di Milano
Fig.4 Vista della mostra di Thea Djordjadze Fausto Melotti alla Triennale di Milano
Melotti (scultore anti-retorico che sceglieva soggetti tra i meno scultorei: il vento, la neve, la cattiveria…) li chiamava “teatrini”. Il nome incanta, e così pure ciò che mobilita. Viene in mente lo spettacolo autonomo, di strada, le compagnie di giro, la piazza, il mercato, le marionette, i venditori ambulanti. Pochi pezzi. Registri minimi e sfilacciati. Su tutto regna l’etereo, l’effimero. La leggerezza di un tulle. Il tepore del forno. Djordjadze spinge tutto questo entro la sua regia e le sue invenzioni, con felici intuizioni formali, che si sostanziano in strutture in acciaio (predominano i colori rosso, nero, bianco) ancorate ai muri portanti, al pavimento, alle colonne. Alle pareti, liberi, ci sono anche alcuni disegni di Melotti, dove, come lui ha scritto, “la linea, come un’anima, palpita d’indecisioni, di certezze, di voluti inganni”.
Fig.5 Vista della mostra di Thea Djordjadze Fausto Melotti alla Triennale di Milano
Fig.5 Vista della mostra di Thea Djordjadze Fausto Melotti alla Triennale di Milano
Ogni teatrino insegue un’immagine. Non propriamente “scene”, drammaticamente o melodrammaticamente o farsescamente compiute, più evocate, mormorate. Qui il rame e l’ottone si fondono in un grumo di figurine orientate in direzione di una imbarcazione tanto fragile che può reggere solo la folata di un sospiro (è la prima opera che s’incontra: Gli addii, 1982). Lì, un’altra figura, a filo di una staccionata, si piega sotto il peso di un cielo plumbeo bucato da una pallida luna e di molte catenelle in ottone (Il gregge è fuggito, 1984). C’è il Teatrino per Scheiwiller (1962), una specie di alveare in terracotta con le sue cellette, dedicato all’editore che nel 1944 pubblicò la prima raccolta di poesie di Melotti, Il triste Minotauro, e accanto una scatola, sempre in terracotta dipinta, sospesa in mezzo al muro: dentro ci sono tre uomini, uno ha le corna e i piedi caprini, gesticola; gli altri due stanno ad ascoltarlo (Il diavolo che tenta gli intellettuali, 1939).
Fig.6 Vista della mostra di Thea Djordjadze Fausto Melotti alla Triennale di Milano
Fig.6 Vista della mostra di Thea Djordjadze Fausto Melotti alla Triennale di Milano
Di tanto in tanto, s’incontrano soggetti di particolare malia e un po’ inintelligibili (Credenza magica, 1945; Le maldicenti, 1962; Il passo della zingara, 1983); altre opere, Scale (1980) per esempio, egregiamente risolta in pochi tratteggi di nuvole e alcune spioventi scalette di carta, sono disarmate e disarmanti nella loro semplicità. È come se queste rappresentazioni nascondessero botole o uscite segrete, proprio come nei teatrini per i bambini, dove tutto è manovrato dall’alto o dal basso. E quasi si riesce a figurarselo Melotti, che va a rifugiarsi nel suo studio milanese con fornace in via Leopardi 9, tutto solo, a brigare attorno alle sue ridotte costruzioni, appoggiando striscette di garza a diverse altezze, a modellare riccioli di argilla in gracili corpicini. Costruzioni in bilico, a cui Djordjadze non ha tolto nulla del loro riserbo, ma che anzi ha reso ancora più esclusive, e al tempo inclusive.
Fig.7 Vista della mostra di Thea Djordjadze Fausto Melotti alla Triennale di Milano
Fig.7 Vista della mostra di Thea Djordjadze Fausto Melotti alla Triennale di Milano
Scrive Charles Simic in un libro su Joseph Cornell, che come Fausto Melotti – e in parte Thea Djordjadze – fu artefice di piccoli universi muti, per lo più impenetrabili e inconoscibili fino in fondo: “Ho letto che Goethe, Hans Christian Andersen e Lewis Carroll dirigevano i loro teatri in miniatura. Devono esserci stati molti altri teatrini di questo tipo nel mondo. Studiamo la storia e la letteratura di un’epoca, ma non sappiamo nulla di quei drammi che venivano rappresentati per un pubblico fatto di un solo spettatore”.
© riproduzione riservata

fino al 27 agosto 2017
Thea Djordjadze Fausto Melotti Abbandonando un’era che abbiamo trovato invivibile
Curatore: Lorenzo Giusti
Triennale di Milano
viale Alemagna 6, Milano

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