I sentimenti, l’identificazione, la centralità del lavoro su spazio e tempo per esplorarli e condividerli. In quella espressione performativa e sperimentale che accettava a forza di sentir chiamare videoarte – alla quale tutto il mondo lo associa – Bill Viola in sei decenni di carriera ha fatto collidere mondi personali e collettivi, il contemporaneo con la storia: la sua esperienza fiorentina, cominciata a metà ‘70, lo aveva fatto entrare in risonanza con rinascimento, manierismo, Pontormo e Paolo Uccello; quarant’anni dopo, nel 2017, lui era tornato a Firenze con una mostra, Bill Viola.Rinascimento elettronico, in occasione della quale aveva ripercorso assieme a Domus le tappe e il presente di un percorso che lo aveva reso maestro internazionale, ma che lui continuava a percorrere come sperimentatore.


Beatrice Zamponi: Nelle sue opere il tempo non è quello scandito dagli orologi, ma una dimensione interna, fatta da sensazioni, memorie, esperienze, diverse per ogni essere umano.
Bill Viola: Il tempo è uno strumento che manipolo, lo velocizzo, lo dilato, lo espando. La gente mi chiede perché uso lo slow motion: rallentare porta a entrare in un’altra dimensione, a non essere più nel nostro mondo, a trovarsi in una posizione totalmente nuova. Puoi vedere un sorriso diventare progressivamente sempre più grande, puoi estendere quell’emozione, prolungarla. Trovarmi così vicino alla Pietà di Masolino che è in mostra, mi ha permesso di osservare la finezza con la quale sono stati dipinti gli occhi, mi ha consentito di coglierne tutte le sfumature sentimentali, il misto tra rassegnazione e compassione. In Emergence, che è in dialogo con l’affresco, ho usato il tempo lentamente perché le emozioni si potessero rivelare, è stato come consentire allo spettatore di entrarci dentro, di guardare, anche in questo caso, l’opera da molto vicino.
Lei si concentra su sentimenti ed emozioni, restituendo nuova dignità al corpo e al suo sentire.
Il mio lavoro non deve essere compreso razionalmente, bisogna lasciare attivare qualcos’altro, qualcosa di fisico. Le opere si devono esperire, vivere, connettendosi emotivamente.
Il suo lavoro tratta tematiche filosofiche ed esistenziali, i suoi riferimenti spaziano dalla mistica cristiana al sufismo islamico, passando per il buddismo zen e la poesia Haiku.
Zeami, uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi e teorico del teatro Noh giapponese, spiegava agli attori come raggiungere quel punto in cui le aquile, sfruttando le correnti, si fermano nel vento e smettono di battere le ali, rimanendo ferme in equilibrio. Sono questi gli insegnamenti che cerco e che ti portano a fare arte, a poter creare.
Negli anni trascorsi a Firenze, lei ha avuto l’opportunità di vedere l’arte antica non isolata in asettiche white cube, ma immersa nel contesto per il quale era stata originariamente pensata. Questo ha influenzato la sua ricerca sullo spazio?
Qui a Firenze l’arte è in ogni dove, vive nella comunità, nei luoghi pubblici, in piazze e strade, diventa una terapia, è come se gli stessi palazzi si prendessero cura di te. L’arte è uno strumento, deve essere utilizzata e vissuta. Osservare questo processo organico è stato fondamentale a definire la mia ricerca ambientale.

All’epoca lei faceva molta sperimentazione sul suono scoprendo che esiste una vera e propria architettura acustica.
Ero molto interessato al suono nelle chiese, passavo ore a registrarlo. Ascoltando il rimbombo di un oggetto che cadeva o l’eco di una parola sussurrata, capivo quanto ogni singolo rumore aiutava a definire e a percepire l’intero spazio. Quando siamo arrivati in mostra, il giorno prima dell’inaugurazione, il nostro tecnico venuto appositamente dalla Germania, ha letteralmente misurato il suono in ogni stanza; il lavoro non sarebbe mai stato completo senza questa complessa opera di armonizzazione.
La sua ricerca è strettamente connessa alla tecnologia e al suo sviluppo: cosa significa creare con uno strumento che da una parte diventa obsoleto molto velocemente e dall’altra è quasi una materia viva sempre in evoluzione?
Riversare, aggiornare costantemente il supporto di un video è come trasferirne il Dna di generazione in generazione. In questo modo non ci sarà mai il pericolo di deterioramento, l’opera vivrà per sempre.

Da bambino lei ha avuto un incidente, è caduto in un lago; si dice che questa esperienza scioccante abbia avuto un forte impatto su tutta la sua visione artistica.
Avevo solo sei anni e non sapevo nuotare. Mentre andavo a fondo, intorno a me prendeva forma la più bella visione di colori, luci e riflessi. Sarei certamente morto se mio zio non si fosse tuffato a salvarmi. Non c’è mai stato un riferimento consapevole a quell’esperienza ma credo che inconsciamente io sia partito proprio da lì. L’acqua è da sempre presente nel mio lavoro, con i suoi molteplici significati: è nascita, liquido amniotico, ma non permettendoci di respirare è anche un luogo di transizione tra vita e morte.
Continuando a parlare di stati di transizione viene in mente uno dei lavori più vecchi presenti in mostra: Reflecting pool. L’opera del 1977 sembra già racchiudere la sua intera poetica.
Vita, morte e rinascita, parla di questo. Nel video salto sopra una piscina e mi blocco in una posizione fetale, senza nemmeno toccare l’acqua. Alla fine mi allontano uscendo dalla vasca, nudo, mentre all’arrivo ero vestito: è avvenuta una nascita, sono diventato una persona nuova. Si tratta di un’opera che ancora oggi mantiene un forte valore universale.

Invece una delle più recenti: Martyrs è stata realizzata per la Cattedrale di Saint Paul a Londra. Si tratta della prima opera video permanentemente installata in una cattedrale in Inghilterra ed è anche il lavoro che chiude la mostra.
Il progetto ha richiesto molto tempo. È uno dei rari casi in cui il tema mi è stato assegnato. In realtà se sulla targhetta non ci fosse scritto Martiri, potrebbe essere molto altro. I veri protagonisti sono gli elementi, le potenze più forti che esistono in natura, totalmente incontrollabili e indomabili. Nelle diverse scene i personaggi patiscono aria, acqua, terra e fuoco, senza ribellione, in uno stato di abbandono. È un modo per dire che non possiamo combattere la morte, ma solo intimamente accettare che arriverà per tutti.