La prima fase di vita dello studio berlinese si concentra sull’interattività, con alcune incursioni nel campo della realtà virtuale, che proprio alla fine degli anni Ottanta si affaccia per la prima volta sulla scena. “Se guardiamo le qualità del mezzo digitale abbiamo tre aspetti” – spiega Sauter – “Il primo è certamente l’interattività, ovvero il dialogo tra noi e gli oggetti, le installazioni; il secondo è Internet, la connettività, l’infrastruttura che collega le cose fra loro; e il terzo è il calcolo, cioè la possibilità di generare forme ed esperienze con gli algoritmi. Sono i tre pilastri del nostro lavoro. Se l’interattività resta importante per noi, da vari anni stiamo concentrando la nostra ricerca sul calcolo e in particolare su come gli algoritmi possano governare le forme e i comportamenti degli oggetti fisici: è qui che vediamo le migliori potenzialità. È un ambito in gran parte ancora sconosciuto”.
River is…, realizzata in Corea del Sud, ad esempio, ci porta sulla superficie di un fiume, con una lastra cromata che riproduce le increspature dell’acqua di un fiume. Con l’aiuto di una torcia si vedono apparire – proprio come i riflessi del sole sull’acqua – parole tratte da poemi coreani.
“Mi sono ispirato alla mia esperienza del contemplare l’acqua di un fiume come se, con i suoi riflessi, volesse comunicarmi qualcosa”, racconta Sauter. Così gli algoritmi, da astratte formule seppellite nella memoria di un computer, diventano lo strumento per farci scoprire lati inediti e imprevedibili della realtà. “Dovete invogliare il vostro pubblico a decifrare quello che l’opera contiene” – conclude Sauter – Siate più poetici”. Come? Guardando meglio. Con più attenzione. Che ci volessero proprio gli algoritmi, primi indiziati del nostro perderci nel virtuale, a ricordarcelo?