Panorama

A Torino, la grande personale di Francesco Jodice permette di ripercorrerne vent’anni di carriera. Noi l’abbiamo visitata con un estemporaneo accompagnatore, immortalato dieci anni fa dal fotografo napoletano insieme ai suoi compagni di liceo.

Il mento contratto in un grugno, la fronte aggrottata, quasi volesse dire: sbrigati, sono a disagio. Un volto adolescente in mezzo a un nugolo di altri volti adolescenti. Negli occhi un groviglio di emozioni, difficili da tirare fuori dalla macchina fotografica e farle esistere in un’immagine. “Non mi sono mai piaciute le fotografie, si vede?” Questa domanda, formulata da una voce maschile nel silenzio ovattato della stanza, mi fa voltare di scatto come spinta da una molla. “Specialmente le foto di classe”. A parlare è un giovane ben vestito, di scarsa statura e dall’aria anonima come le figure di sfondo di un quadro. “Mi scusi, non volevo spaventarla”, si giustifica. “Mi sono sentito i suoi occhi addosso”.
Francesco Jodice
Francesco Jodice, Ritratti di classe. Torino, 2005
Si avvicina con espressione fissa, senza mai staccare lo sguardo dalla fotografia appesa al muro dietro la mia testa. Una foto che lui conosce bene. “Avevo 12 anni ed ero più che mai ansioso di crescere. Un recidivo delle fughe da casa”, dice puntando il dito sulla faccia imbronciata del ragazzo che si è lasciato alle spalle. “L’attesa ancora mi divora. Il tempo, sa…”, si volta e mi guarda diritto negli occhi. Annuisco, mentre la sua immagine di scolaro si fa incerta e svanisce, sostituita dalla nuova realtà 2016 che mi sta dinanzi. “Era la sua classe?”, domando per levarmi dall’imbarazzo. “Sì, ma solo quell’anno”, e pronuncia i cognomi del registro tutti assieme, come se stesse recitando uno scioglilingua.
“A settembre… Mio padre… Il liceo non l’ho mai finito”, taglia corto. “Cosa guardava con tanto interesse?”, mi domanda. “La mobilità dei suoi occhi”, rispondo di getto. “E quella gruccia sotto la panca, dietro le sue scarpe slacciate”. Mi sorride, di un sorriso amaro. Torniamo a guardare la foto. “Quello laggiù”, dice indicando un ragazzo dall’aria mite e le mani raccolte a coppa sulle ginocchia, “non andava d’accordo con la sua famiglia adottiva. Si è imbarcato qualche anno fa come cuoco da crociera, va su e giù per i mari”. “Quello lì invece”, e addita un faccione rubicondo cosparso di lentiggini, “quello aveva sempre addosso l’odore d’olio fritto. Ha aperto una lavanderia proprio qua dietro”.
Francesco Jodice
Francesco Jodice, What We Want. Aral T51, 2008
I suoi occhi hanno un guizzo. “E lei…”, la sua voce ha un fremito alla vista di un piccolo viso a forma di cuore, “ne ero innamorato… dopo quell’estate non l’ho più rivista”. Segue il riguardoso silenzio che certi ricordi richiedono. Sospira. “La complessità del mondo, sa… È difficile da destreggiare”. Faccio segno di sì con la testa. S’accorge che altre foto di altre scolaresche sono appese alle pareti (titolano tutte Foto di classe, “istantanee dell’Italia futura” dice la spiega, parte di una serie datata 2005–09). Gira le braccia come l’ago di una bussola su quella distesa di facce divertite, incupite, strafottenti. “Nelle foto ci si rivede in brutta o bella copia”, mormora, “con la memoria bucata, come se non fossimo più noi”.
Francesco Jodice
Francesco Jodice, What We Want. Jerusalem R31, 2010
Lascia decantare la frase, poi cambia accordo: “Quando è venuto a farci la foto… Era la fine dell’anno scolastico… Non sapevo fosse un fotografo famoso”. Gli sorrido. “Lo conosce?”, mi chiede. Annuisco. “Che tipo è?” Ci penso su. “Un abilissimo oratore”, mi viene da dire, “tutt’altro che parsimonioso. Dotato di un innato e totale coinvolgimento nel suo mestiere”. “Ha visitato i posti più inverosimili”, esclama. “Le foto che ho visto all’ingresso…” E mentre le descrive sfoglio mentalmente le 150 metropoli di What We Want (progetto avviato nel 1995 di cui qui è, volutamente, esposta solo una fotografia. Le altre sono appiattite dentro due enormi album). Dal lago salato d’Aral, ai grattacieli di Tokyo, a una terrazza a Dubai.
Francesco Jodice
Francesco Jodice, What We Want, Hong Kong T46, 2006
“Bellissime”, dice, “ma non ci vivrei mai, in quei posti intendo… Sembrano come attraversati da correnti di aria condizionata”. Convengo con lui e mi dichiaro dello stesso parere. “Quella veduta di Capri…”, schiocca la lingua in direzione del corridoio. “Così familiare e così aliena… L’isola è un tappo di sughero, e il mare… Sembra fatto di linoleum”. “È una foto notturna”, gli dico. S’illumina. “Davvero?” Io sto ancora pensando al mare, al Tirreno che diventa Mediterraneo, e al Mediterraneo che si solidifica, confine agglutinato di una geografia liquida, nella video installazione Solid Sea (presentata a Documenta 11, nel 2002, e proiettata nella sala accanto). “Davvero”, ripeto, “tempi lunghi di esposizione”.
Il tecnicismo della mia risposta non sembra convincerlo, e come colto da zelo improvviso, cava il comunicato stampa della mostra dalla tasca dei pantaloni, e inizia a leggere a voce alta: “L’esposizione ‘Panorama’, ospitata da Camera – Centro Italiano per la Fotografia, racconta il percorso ventennale del fotografo e filmmaker Francesco Jodice (Napoli, 1967)”, salta di rigo in rigo, “…A cura di Francesco Zanot… Progetto espositivo dell’architetto Roberto Murgia… Un’indagine sullo scenario geopolitico contemporaneo e sulle sue trasformazioni sociali e urbanistiche, che ha avuto come nuclei tematici”, e qui scandisce distintamente ogni vocabolo, “la partecipazione, il networking, l’antropometria, lo storytelling, l’investigazione”.
Francesco Jodice
Francesco Jodice, The Room, 2009
Prende fiato. “The Room (2009–16) è un ambiente foderato di pagine di quotidiani italiani cancellate da uno strato di vernice nera, dove le poche parole risparmiate sono sufficienti a restituire un anno di vita del paese”. Chiude gli occhi e si sforza di ricordare qualche lemma rivelatore che deve aver letto sulle pareti fuligginose della stanza: “rivoluzione, la suocera, Masterchef”. Li riapre, e continua a leggere. “Il film Hikikomori (2004) esplora un fenomeno di reclusione volontaria… The Secret Traces (1998) è il risultato di una serie di pedinamenti fotografici di individui qualunque nei loro spostamenti quotidiani… Citytellers (2006–10) è una trilogia di filmati su alcuni emblematici contesti geopolitici globali…”
Francesco Jodice
Francesco Jodice, Yasuaki Hikikomori, 2004
Fa una pausa. Alza gli occhi su di me. “S’interessa alle cose più diverse”, postilla. Mi stringo nelle spalle. “Diciamo che ha un sistema tutto suo di concessione degli allori”. E mi torna in mente la sua frase: La complessità del mondo è difficile da destreggiare. Mi guarda con aria interrogativa. “Anche più dell’opera conclusa…”, provo a dire, “a entusiasmarlo è la situazione, il quadro, il meccanismo narrativo che la fa gettare. Metabolismo è, in questo senso, un termine che è solito usare spesso”. Vedendolo aggrottare la fronte, cerco le parole più giuste per farmi intendere, ma le trova prima lui, cellulare alla mano, su Wikipedia: “Metabolismo, dal greco cambiamento”. Non mi sento di aggiungere altro.
Francesco Jodice
Francesco Jodice, Dubai Citytellers, film HD, 57’45”, 2010, film still
Un calpestìo di passi si disperde sopra le nostre teste. Tendiamo l’orecchio e fissiamo il soffitto. “Studenti”, dice lui. “Qui sopra c’è un liceo”, mi fa sapere restando con il naso all’insù. “Sul serio?” Domando stupita. Fa sì con la testa. “Qualcuno mi ha detto che questo edificio ha ospitato la prima scuola pubblica del Regno d’Italia. Questa stanza… È un’aula”. Di sopra la campanella suona. Lui stacca gli occhi da dov’erano e li proietta oltre il vetro della finestra. Il cielo di Torino è di un azzurro inamidato. “È giugno. La scuola è quasi finita”, dice laconico. So che sta pensando la stessa cosa che penso io. Un fotografo dietro l’obiettivo. Una classe in posa. Ci guardiamo senza dire nulla. E diamo entrambi in una risata.
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