Farsi una bella pisciata in una delle più quotate gallerie francesi, ha un registro dissacrante e induce a pensare a come si sia evoluto il lavoro di tanti suoi colleghi. Alcuni, come Pierre Huygue, divelgono pietre per costruire sofisticati microambienti sui tetti del Metropolitan Museum di New York altri, come Philippe Parreno, mettono in scena superproduzioni multimediali al Park Avenue Armory. Ma dove è finita dunque l’energia delle origini?
L’impressione, indagando la relazione tra soggetto e oggetto, è che si siano tutti impigliati nelle riflessioni del sociologo inglese Dick Hebdige che una trentina di anni fa mise a nudo la questione del fascino potente e innaturale della sottocultura. Un suo testo sullo stile, costruito appunto sull’analisi dell’estetica punk, fornì una reputazione teorica al movimento. La sterminata produzione teorica e di rilettura dei fenomeni giovanili, dal punk al grunge, imposero la scena delle controculture al livello della cultura alta. Gli artisti cominciarono a nutrire voglie di leggende e biopics, proprio come le rockstar più conosciute, e contribuirono all’estensione del dominio dell’estetica punk.
Al mondo dell’arte di oggi, Tiravanija mostra questo esercizio semplice del ribaltamento della scena. Rilancia la costruzione di altari e santuari come questo in vero marmo: non più il set tipico della performance hard-core, ma il monumento inconscio alla sua impraticabilità.
Chitarra, basso e batteria sono perfettamente funzionanti e utilizzabili ma il tutto resta muto e in fondo innaturale. È un espianto di materiali dalla scena originaria e Tiravanija cita le metope e i marmi del Partenone proprio come un odierno Lord Elgins.