Così è stato ricreato al cinema il mondo degli Shakers, precursori del design moderno

Samuel Bader, scenografo di The Testament of Ann Lee, racconta la costruzione dell'universo Shakers, la setta religiosa diventata un mito del design, che esce al cinema.

Diretto da Mona Fastvold — già nota per The World to Come e per la sceneggiatura di The Brutalist, premiato alla Mostra del Cinema di Venezia — The Testament of Ann Lee è un film storico e musicale che racconta la nascita degli Shakers, movimento religioso fondato nel XVIII secolo da Ann Lee, leader carismatica e visionaria capace di trasformare un credo in un sistema comunitario di vita. In un’America ancora rigidamente divisa per gerarchie sociali, la comunità si distingue per un’idea estrema di uguaglianza e inclusione, radicale per molti versi anche oggi. L’unica condizione non negoziabile resta il celibato.

Nel film, la sua storia passa attraverso la musica, più di una dozzina di inni Shaker rielaborati in sequenze coreografiche di Celia Rowlson-Hall, con musiche originali di Daniel Blumberg, e attraverso la scenografia di Samuel Bader.

Lo abbiamo incontrato per farci raccontare cosa abbia significato ricostruire visivamente questo mondo, lavorando su spazi e oggetti pensati per restituire un’idea di disciplina, lavoro e collettività.

Matthew Beard, Amanda Seyfried, Scott Handy, Thomasin McKenzie, Jeremy Wheeler, Stacy Martin e Lewis Pullman in The Testament of Ann Lee. Foto per gentile concessione di Searchlight Pictures. © 2025 Searchlight Pictures. Tutti i diritti riservati.

Gli Shaker, oltre il mito del minimalismo

Una comunità religiosa americana dell’Ottocento che finisce per ispirare generazioni di designer e artisti è qualcosa di piuttosto raro. Così raro da essere oggi difficile da immaginare in termini concreti.

“Gli Shaker sono diventati quasi un concetto, più che qualcosa che possiamo visualizzare come esperienza vissuta”, dice Samuel Bader, introducendo il suo approccio alla scenografia. Per lui lavorare al film non significava ricostruire un’estetica pronta all’uso. “Quello che mi ha colpito fin da subito è stata l’idea di un’autorialità completamente collettiva.” Nella cultura Shaker, insiste, “non c’è mai il nome di una persona sopra qualcosa”. Oggetti, tecniche, utensili, mobili nascono da un sapere condiviso. “Dal burro ai mobili, dagli strumenti alle invenzioni domestiche, tutto appartiene alla comunità.” Un principio che, spiega, ha cercato di far riemergere anche nel making of dei set, lavorando a stretto contatto con artigiani e competenze specialistiche.

Sono diventati quasi un concetto, più che qualcosa che possiamo visualizzare come esperienza vissuta


Oggi, gli Shaker viventi sono pochissimi. “Tre, a quanto pare”, dice Bader. “Vivono in Maine, probabilmente a Sabbath Day, direi.” Durante la preparazione del film non c’è stato alcun contatto diretto. Al loro posto, racconta, la ricerca si è appoggiata a musei e archivi. “Sono andato a vedere gli archivi e gli artefatti Shaker sopravvissuti.” E aggiunge: “Abbiamo collaborato con lo Shaker Museum di Chatham, New York, e con l’Hancock Shaker Village in Massachusetts.”

Non come repertorio da copiare alla lettera, ma come strumenti visivi e materiali sufficienti a entrare nei concetti chiave di una cultura che Bader definisce ancora oggi “radicale”.

Regole, non stile

“Quello che non sapevo, e che più sorpreso, è fino a che punto alcune delle forme che oggi associamo agli Shakers derivino da altre tradizioni”, racconta Bader.  “coloniali, georgiane… inglesi, mancuniane”. 

“Dalle sedie ladderback agli intrecci, quello che distingue davvero gli oggetti Shaker — e che ci sembra così singolare e iconico — è in realtà profondamente iterativo”, dice Bader. Un sistema che prende forme preesistenti e le ripete, le affina, le stabilizza fino a farle diventare linguaggio. E per chi è chiamato, questa volta, a tradurlo in scenografia, la domanda viene da sé: “Come assorbi così tante informazioni visive e le distilli fino alle forme davvero essenziali?”.

“Gli Shaker erano senza dubbio al loro apice a metà Ottocento, negli anni Quaranta, Cinquanta, Sessanta”, dice Bader. È il momento in cui “gli insediamenti avevano la popolazione più ampia” e la produzione raggiunge il massimo, tra “mobili, cabinetry, invenzioni e oggetti domestici”. Poi la linea della ricezione si fa più sfuggente. “È curioso come queste cose entrino ed escano di moda”, osserva. “Non ho certo la risposta… ma mi chiedo quando sia iniziata davvero questa resurrezione. La pancia mi dice che sia stata la seconda metà del Novecento.”

Quello che mi ha colpito fin da subito è stata l’idea di un’autorialità completamente collettiva

Samuel Bader

Dalla città al Nuovo Mondo

Il metodo, per Bader, è quindi visivo prima ancora che filologico.
“È stato come disegnare dal vero: non inizi mica dalle ciglia, tracci un gesto”. E quel “gesto”, in questo caso, sono stati tono e palette.

Manchester doveva essere “disordinata, imperfetta”: “con la vita trabocca nelle strade, le persone che vivono una sopra l’altra, tutto che è deformato e vecchio”. Il riferimento diretto "è stata un’incisione di William Hogarth”. Ne derivano colori “più torbidi e saturi”: marroni, borgogna, verde oliva.

Quando il film passa in America, cambia aria. “New York — New York, New Amsterdam, come vuoi chiamarla — deve sembrare fresca, luminosa, piena di sole”. Gli spazi, dice Bader, devono avere una qualità “da legno appena tagliato”, più netta, più aperta. Ed è curioso come lui e Fastvold arrivino allo stesso riferimento “indipendentemente”: “Ci siamo ritrovati a convergere su Hammershøi”, con i suoi “blu polverosi” e con gli scuri che diventano “neri gessosi”. Nei costumi entrano “tocchi di giallo, tocchi di rosso”. E anche il mondo Shaker, a quel punto, cambia registro. “Diventa più leggero, più esposto”, in armonia con paesaggio e luce, e impone una ricerca sulle sfumature che quasi non si vedono. “Non so quanti test avremo fatto” per infissi, panche, porte e finestre, perché “è una tonalità sottilissima” e “doveva essere perfetta” contro i costumi.

Dal burro ai mobili, dagli strumenti alle invenzioni domestiche, tutto appartiene alla comunità

Samuel Bader

Mona Fastvold con cast e troupe sul set di The Testament of Ann Lee. Foto per gentile concessione di Searchlight Pictures. © 2025 Searchlight Pictures. Tutti i diritti riservati.

Un’impostazione che rivela l’educazione di Bader alla pittura e alla pellicola. Racconta di essersi innamorato della fotografia analogica e della celluloide, “tenuta in mano” abbastanza a lungo da capirne la chimica, e di venire da anni di pittura astratta.

Nelle immagini del film risuonano Caravaggio, Francis Guy e John Lewis Crimmel, ma anche “Paul Sandby, che ha fatto degli acquerelli incredibili dell’epoca e che per noi è stato un riferimento enorme”. Accanto a questi rimandi, Bader cita anche le immagini prodotte dagli Shakers stessi: vedute dei villaggi che definisce “ingenue”, ma preziose perché “ti dicono tantissimo sulla disposizione dei villaggi e degli spazi”, fino a diventare la base informativa per “il layout del film”.

Qualcosa di grande, con poco

Se gli si chiede del set più significativo consiglia di prestare particolare attenzione alla meeting house, la sala della danza finale. "Il percorso per arrivare a quel set è stato, in molti modi, il percorso dell’intero film". C’erano poche risorse e poco tempo, eppure "dovevamo fare qualcosa di molto grande". Durante il location scouting trovano una struttura agricola usata come deposito, "era piena zeppa di rottami, scafi di barche, roba buttata lì". Sopra, però, c’è un soffitto ligneo a volta dei primi dell’Ottocento: "era perfetto e costruirlo da zero avrebbe significato il doppio del tempo, il doppio dei costi".

scelgono una scorciatoia radicale ma concreta: "buttare giù tutte le pareti non portanti e costruire la meeting house dentro quel guscio". Il paradosso è che nella versione finale quell’elemento decisivo resta quasi invisibile: "cinque-dieci per cento della composizione". Ma ciò che regge, spiega Bader è l’insieme: "Quella stanza, la sua storia", dice Bader, "si riflette in quasi tutti i set del film".

Ensemble in The Testament of Ann Lee. Foto per gentile concessione di Searchlight Pictures. © 2025 Searchlight Pictures. Tutti i diritti riservati.

Lo stesso principio guida le scene della costruzione del villaggio, dove la scenografia doveva mostrare un processo, non solo un risultato. “Era importante che tutto sembrasse il risultato di un fare comune. Non qualcosa costruito per la macchina da presa, ma qualcosa che esiste perché deve esistere”.

“Ho passato interi weekend tra upstate New York e Berkshires, bussando alle porte di artigiani e falegnami”, racconta Bader. L’incontro decisivo è con uno specialista di carpenteria storica che finirà per entrare anche nel film. “Mi disse: ‘Io ho tutte quelle cose, e funzionano davvero. Vengo, vi mostro come si fa. Mi metto un costume e guido io davanti alla camera’”. Nel film lo si vede accanto a Lewis Pullman mentre abbattono un albero, poi mentre lavora su montanti e infissi e inserisce vetri soffiati a mano nei telai. È qui che la scenografia smette di essere sfondo: “In qualche modo, questo modo di lavorare incarna lo spirito del film, lo spirito degli Shaker”.

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